“Non è un reportage fatto di numeri, ma di storie raccolte nell’incontro con persone con mille difficoltà che vivono nella nostra città”.
Nunzia (è un nome di fantasia) è da mesi in cerca di un’abitazione, dopo essere stata sfrattata dalla casa in cui viveva assieme al figlio. Negli ultimi tempi non aveva luce, cibo e riscaldamento, ma almeno aveva un tetto sotto il quale dormire. Dopo che il figlio ha perso il lavoro, però, si è ritrovata ad occupare assieme a lui una delle stanze della struttura di prima accoglienza “Maddalena”, nel centro della città, gestita dalla Fondazione Città Solidale (a presiederla è padre Piero Puglisi), e aperta ventiquattro ore al giorno sin dal 1993.
Soli, senza casa e senza reddito, madre e figlio non avevano altre possibilità per evitare la strada: in risposta alla lettera indirizzata al sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, in cui segnalava la sua difficile situazione, Nunzia ha visto attivarsi attorno a sé e al figlio la gara di solidarietà che coinvolge i servizi sociali (e spesso anche le forze dell’ordine) per l’affidamento nella struttura convenzionata con il Comune. Certo, i settanta giorni previsti per l’accoglienza le sono stati rinnovati più volte – in attesa che lo stato di precarietà con il quale si è trovata a fare i conti si risolva il più presto possibile – ma a Nunzia non poter godere della propria privacy comincia a pesare, pur sottolineando il grado di umanità degli operatori che l’hanno fatta sentire come a casa sin dal primo istante, supportandola nel disbrigo delle pratiche burocratiche, fino all’ottenimento di una borsa lavoro con “Città Solidale”, nonostante le condizioni di salute piuttosto cagionevoli. “Il mio desiderio più grande è poter avere una casa. Ho fatto domanda per una casa popolare, ma è molto difficile ottenerla. E non potendo assicurare un pagamento sicuro, anche un affitto diventa per me proibitivo”, spiega Nunzia rassegnata. La sua unica preoccupazione è il bene del figlio, così giovane e armato di buona volontà, eppure già così provato dalla vita. Sulla sua pelle l’abbandono da parte del padre, la depressione, la perdita del lavoro: ma tutto questo non gli ha impedito di cercare altro (al momento ha trovato un’occupazione) e di mantenere una ristretta vita sociale, per quanto provi vergogna a raccontare ad altri dove attualmente si trovi.
Nunzia e suo figlio condividono gli spazi comuni con altre persone, italiane e straniere, che di volta in volta giungono in struttura con il loro bagaglio carico di indigenza, solitudine ed anche violenza. Come tiene a precisare Mariella Ruggero, educatrice professionale e responsabile della struttura, alla “Maddalena” giungono persone con i bisogni più disparati, dai senzatetto per fortune avverse e non per scelta, alle straniere vittime di tratta e a quelle italiane costrette alla fuga da un compagno violento. Le loro storie si intersecano, poi, con quelle degli immigrati che approdano sulle nostre coste a bordo di un barcone con la speranza di un futuro possibile, e poi si scontrano con le maglie burocratiche dei permessi di soggiorno e la mancanza di lavoro: in attesa di raggiungere su e giù per l’Italia amici o parenti che hanno trovato una sistemazione, si fermano così alla Maddalena per brevi periodi, per poi farci ritorno in occasione del rinnovo del permesso di soggiorno. Attraverso il supporto di mediatori e psicologi, vengono per loro attivati dei piani di trattamento individuali comprensivi di percorsi formativi e di apprendimento della lingua, visite sanitarie e borse lavoro: “Come avviene in ogni struttura gestita dalla Fondazione, perseguiamo uno stile che porta le persone a convivere responsabilmente con altre culture e etnie, dalla preparazione dei pasti che non contempla la consumazione della carne di maiale, al rispetto degli orari dedicati alla preghiera ed al riordino ed alla pulizia degli spazi comuni –chiarisce ancora l’operatrice – Molto spesso questi ragazzi africani necessitano di supporto psicologico, perché la detenzione in Libia, in attesa di potersi imbarcare per l’Europa, li mette davvero a dura prova. Ci raccontano le violenze inaudite ad opera degli scafisti, le condizioni disumane in cui stazionano nei centri lager, costretti anche a bere la propria “pipì” per potersi dissetare, e poi le traversate che, al pari di una “roulette russa”, si portano dietro il rischio concreto di finire annegati o schiacciati dal peso degli altri corpi ammassati l’uno sull’altro”. La storia di due di questi ragazzi che avevano trovato ospitalità alla Maddalena è comparsa l’anno scorso sulle cronache cittadine per la fine orribile che li ha visti travolti tra le acque del quartiere Lido di Catanzaro, nel vano tentativo di recuperare un pallone lanciato in mare. E sulla stessa spiaggia di Lido ha trovato riparo, all’interno di un tubo di plastica, una ragazza di origine serba che è stata accolta in questi giorni in struttura: sola, senza documenti, e senza conoscere una sola parola della lingua italiana, sembra arrivare dal nulla. A nessuno ha saputo spiegare cosa l’abbia condotta fin qui, né ha potuto nascondere i disturbi psichici da cui è affetta. Gli stessi disturbi che sempre più spesso sembrano accomunare quanti hanno a che fare con la morte, i soprusi, la povertà, ma anche l’arretratezza culturale. E’ il caso, ad esempio, del ragazzo violento con seri problemi di ludopatia che poco tempo fa ha trovato accoglienza in struttura: “Di casi disperati alla Maddalena ne giungono tanti in ogni momento del giorno e della notte, alcuni di più facile soluzione rispetto ad altri – continua ancora Mariella Ruggero – I senzatetto “per scelta”, ad esempio, che noi cerchiamo di aiutare con la distribuzione di pasti e coperte non solo nelle sere di gelo, rimangono tali. Queste persone non vogliono cambiare stile di vita. Ma a tutti gli altri cerchiamo di dare risposte immediate per quanto possiamo, nella consapevolezza che gli italiani in difficoltà non desiderano staccarsi dai loro luoghi di origine e dai loro affetti più cari, mentre gli stranieri sono già proiettati con la mente al nord Italia o ad altri paesi d’Europa”.
Un senzatetto assieme ad un operatore dell’Oasi
La parte più a sud della città è caratterizzata da una presenza maggiore di senzatetto e di persone che vivono in condizioni davvero poco dignitose. Per venire incontro alle loro esigenze, l’arcivescovo metropolita Vincenzo Bertolone, nell’anno in cui Papa Francesco ha indetto il Giubileo della Misericordia, ha inaugurato il 7 dicembre 2015 l’Oasi di Misericordia nel quartiere “Fortuna”, con l’impegno congiunto di alcune realtà ecclesiali e di Fondazione Città Solidale che ne cura la gestione. Da allora, come tiene a precisare il responsabile Umberto Fedele, le persone italiane e straniere che vivono in condizioni di estrema precarietà, su segnalazione dei servizi sociali, delle parrocchie e della Caritas, e con documenti in regola, possono trascorrere la notte nell’accogliente struttura dotata di quattordici posti letto, di bagni per le docce e di lavanderia, e usufruire del servizio mensa (attivo dalle sette di sera) e della colazione al mattino. Subito dopo le persone riprendono la loro strada, per poi farvi ritorno, se sono abituali, alla sera. Ma è nel servizio itinerante di distribuzione dei pasti “a domicilio” (ben 15390 i pasti distribuiti nel corso del 2018) che prende forma il disagio, attraverso l’incontro diretto con i senzatetto che si fanno trovare nei punti stabiliti, e la visita veloce alle case di tante persone che non riescono a nascondere le loro mille difficoltà quotidiane, e che a volte si fanno lasciare i pasti sul davanzale delle finestre senza neanche mostrarsi per vergogna.
Il nostro giro inizia sul furgoncino dell’Oasi, in compagnia dell’operatore Antonio Critelli (che si alterna nello svolgimento del servizio, sia itinerante che nel turno di notte in struttura, con Giulio Caliò e Stefano Ziparo), con lo scopo di distribuire quei quaranta, quarantacinque pasti al giorno (consegnati a fine giornata dal servizio mensa della “Ristorart”) alle persone segnalate, a cominciare da quelle che stazionano nei pressi dei supermercati del quartiere marinaro. Accanto a Juop, senegalese molto distinto, con tanto di cravatta annodata, che vive a Lido da dodici anni, e che ci racconta di dover lasciare presto l’abitazione nella quale abita, ci sono altri giovani di colore, meno avvezzi a parlare italiano, che si sono fatti trovare grazie al “passaparola” che avvicina quanti condividono la medesima condizione.
Alla tappa successiva incontriamo Juan Carlos, un senzatetto molto conosciuto in città per la straordinaria cultura e visione misericordiosa della vita che lascia senza parole chi si ferma ad ascoltarlo. A dispetto dell’aspetto logoro, della barba incolta e dell’uso abbondante di alcol che fa per scaldarsi e per tenersi su con il morale, Juan Carlos si affida alla misericordia divina, nella convinzione che tutti gli uomini prima o poi faranno ritorno al “grembo materno”: e non è un caso che, dal Paraguay, abbia scelto come dimora il luogo dove la sua storia ha avuto inizio (il padre era originario di Lamezia), dopo tanto peregrinare su e giù per il mondo, con l’immancabile chitarra come unico bagaglio. Juan Carlos, che dimostra più anni di quelli che ha, è poliglotta e ammette di aver studiato medicina nucleare in passato: “Ho commesso un errore, ho firmato come medico pur essendo ancora uno studente per poter autorizzare l’operazione ad un bambino che aveva pochi minuti di vita – ci racconta – La mia carriera universitaria è finita, ma almeno ho salvato la vita ad un bambino”. E’ un fiume in piena, Juan Carlos, che si porta ancora dietro la ferita di un amore sbagliato con una tedesca fredda e cinica e della perdita della madre tanto amata. Poi, di colpo, non ha più voglia di parlare, e raggiunge la sua “postazione” sotto un albero per consumare il pasto. Di andare a dormire all’Oasi non ne vuole che sapere, preferisce avere una coperta per sdraiarsi sotto il cielo stellato e sentirsi più vicino a Dio.
“Arena” ci accoglie col sorriso, scortato da due dei sette affezionatissimi cani che abitano con lui in un rifugio, in un terreno di sua proprietà nei pressi della stazione ferroviaria. La sua famiglia, ci spiega, è composta proprio da loro, perché “chi ama gli animali ama anche se stesso”. Dopo averci raccontato del suo mestiere di carpentiere e di come ha visto svilupparsi la zona di Copanello, però si commuove appena gli chiediamo se ha figli e nipoti: un tasto dolente per un uomo di settantaquattro anni che è anche bisnonno e soffre della lontananza dai suoi affetti più cari. Va via con le lacrime agli occhi, ringraziandoci del pasto e senza dimenticare di dirci: “Se avete bisogno, io sono qua”.
Paradossalmente, però, è nelle case che riscontri maggiore solitudine: nel quartiere marinaro sono diversi (e l’elenco potrebbe essere ancora più lungo) i nuclei familiari che non hanno nulla oltre il tetto sotto il quale dormono, e attendono con ansia le ore pomeridiane per potersi sfamare con i piatti che vengono consegnati dagli operatori ancora caldi. C’è Salvatore, ad esempio, con l’anziana madre Assunta, costretto in un letto dalla sclerosi multipla, che si muove solo tramite le forti braccia dell’operatore che lo assiste. Salvatore aspetta la bella stagione per andare a mare, e da come ne parla ci fa intendere che lo fa abitualmente. Ma basta osservare la lunga e stretta scala che lo separa dalla strada per intuire come per lui le uscite siano davvero proibitive.
E poi, tra le altre, c’è la famiglia di Maria, una giovane mamma rumena sempre sorridente che vive in un’unica stanza umida, in un piano terra, assieme alle tre figlie, gioiose come lei, al marito e ad un parente.
Maria e la sua famiglia abitano qui da quindici anni, le sue figlie sono nate in Italia e le due più grandi frequentano con profitto la scuola (l’ultima ha solo due anni): il marito lavora saltuariamente, ma di certo lo stato di indigenza non ha minato il loro animo allegro e accogliente. Nel vedere l’angusta stanza in cui si svolgono le varie fasi della giornata, ci si meraviglia della loro contentezza, come fosse un privilegio riservato ai pochi che colgono della vita gli aspetti più essenziali.
Finito il giro dedicato alla distribuzione, ci rechiamo alla “Ristorart” per recuperare i pasti da consegnare il giorno dopo, e facciamo ritorno all’Oasi: qui l’operatore Giulio dà il cambio ad Antonio, e si prepara ad accogliere i senzatetto che verranno a trascorrervi la notte. “Speriamo che il servizio duri, perché ce n’è tanto bisogno”. E’ il saluto di commiato dell’operatore Antonio, che fa il pari con quanto affermato dal responsabile Umberto Fedele: allo stato attuale, infatti, è la Fondazione Città Solidale a consentire il proseguimento del servizio, tra mille difficoltà. In attesa che l’Oasi possa trovare le risorse necessarie a continuare ad intercettare i bisogni primari e a darvi risposta.
I servizi erogati dall’Oasi nel 2018
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Benedetta Garofalo
Ufficio stampa CSV Catanzaro