222: un numero che dà un'etichetta e toglie la speranza

Una povertà strutturale che diventa culturale ed educativa: è ciò che traspare dal nostro reportage sul degrado di viale Isonzo

 
222: un solo numero per “schedare” un intero quartiere, con casermoni altissimi e sventrati che si distinguono per il colore e per la lettera alfabetica scritta a mano sotto l’unico civico. Chi non ha mai percorso a piedi il così vituperato “viale Isonzo” della zona a sud del capoluogo non può avere l’esatta percezione di ciò di cui sta parlando.  Viale Isonzo, infatti, è molto peggio dell’idea che la comunità si porta dietro da anni: dire che viale Isonzo è degradato, sporco, pericoloso ed invivibile è solo un eufemismo. Viale Isonzo è un budello senza uscita che ti fa girare la testa e mancare l’aria, è un luogo senza passato e senza futuro che ti toglie ogni speranza, ed in cui non esiste altro modo per sopravvivere se non quello di adeguarsi ad un sistema di squallore che sembra avere il carattere di una condanna.
A viale Isonzo, intanto, è difficile arrivare fino in alto, senza attirare l’attenzione, se non si è accompagnati da qualcuno che è conosciuto dagli abitanti del quartiere: e se con me non ci fossero stati Sergio Lavecchia, che da anni guida il Gruppo Scout avente sede operativa nei locali della parrocchia, e la moglie Isa Celia Magno, volontaria e insegnante in pensione molto apprezzata nella zona, difficilmente avrei potuto intervistare le persone incontrate lungo il tragitto. Di quel quartiere, che nel progetto della fine degli anni settanta doveva ospitare le residenze delle forze dell’ordine, non è rimasto nulla: ora è un ghetto da cui la comunità vuole consapevolmente affrancarsi, in cui l’integrazione con le numerosissime famiglie di etnia Rom trasferite qui nell’82 è miseramente fallita (a parte qualche sporadico caso di matrimonio misto) e la maggior parte degli abitanti è accomunata dal medesimo desiderio, quello di andarsene. “Negli ultimi tempi sono stati completati oltre cento appartamenti da destinare a famiglie assegnatarie, ma sono in tanti a non voler vivere qui. D’altronde, come dar loro torto? Continuano ad assegnare case senza garantire un contesto abitabile. Il problema è proprio questo”. E come poter contraddire le parole di Sergio Lavecchia? Oltre la parrocchia c’è una salita sempre più ripida che conduce in un mondo a parte, come se fosse uscito dalla mente visionaria di Quentin Tarantino, e più avanti si va, più si fa fatica a credere che una piccola “Scampia” possa esistere anche qui. Palazzi squarciati, con buchi enormi tra un piano e l’altro, con gli ascensori fuori uso, senza portoni e senza luce: i pali dell’illuminazione esistono, ma di lampadine neanche a parlarne, con il rischio molto concreto di cadere nelle voragini che escono fuori dal manto stradale. La pulizia? Un dettaglio. L’erba avvolge qualunque cosa incontri, le carcasse delle macchine fanno bella mostra di sé tra un palazzo e l’altro, e gli ammassi di spazzatura indifferenziata si ritrovano ovunque sia lasciato un posto libero. A viale Isonzo non fa impressione stendere i panni al balcone con una discarica a cielo aperto sotto. Così come non fa scandalo che i bambini saltino la scuola per vagabondare nello spiazzo, tra i rifiuti e i ferri arrugginiti. “Nessuno si stupisce più di niente quando è abituato al brutto – è il commento di Sergio e di Isa – E’ una povertà strutturale che si riverbera nel modo di concepire l’esistenza, come se oltre questo ghetto non ci possa essere nulla per chi vi abita. Del resto, concepito così com’è, con palazzoni orrendi su una strada senza uscita, senza il pur minimo servizio, è chiaro che si voglia ghettizzare una parte della popolazione che ancora paga il mutuo della casa e non se ne può andare, e che si è ritrovata a convivere con vicini diversi per cultura ed esperienza di vita che non riescono ad integrarsi”. E’ una povertà “strutturale” che diventa “culturale” ed “educativa”: i ragazzi crescono con la mentalità di “figli di un dio minore” che non hanno altri interessi oltre la televisione e l’andare a zonzo per il quartiere senza una meta. Del resto, perché andare a scuola se i loro genitori non ci sono andati o l’hanno abbandonata presto per mettere su famiglia? Perché praticare uno sport se non c’è neanche un campetto dove tirare un calcio ad un pallone? E perché fare parte di gruppi parrocchiali se si viene sempre additati come figli degli “zingari”? La convivenza, proprio perché forzata, non è mai riuscita.
I “civili” ed i rom spesso si guardano in cagnesco. “La sera c’è il coprifuoco – è lo sfogo della signora Emilia – Ogni giorno c’è un via vai di poliziotti che fanno i controlli. Qui non si possono avere amici, non puoi neanche allontanarti per fare la spesa perché ti ritrovi con la casa svaligiata, come mi è accaduto tempo fa. E non puoi nemmeno lasciare la finestra aperta perché sono al pianterreno e mi entrano spesso topi che sembrano gatti”. Ma ciò che più impensierisce Emilia è il figlio, costretto da un ritardo cognitivo a stare tutto il giorno in casa e a dipendere da lei. “Le poche volte che esce nel quartiere viene preso di mira, anche da bambini piccoli, e poi sfoga in casa il suo nervosismo. Secondo lei, è vita, questa?
Non sono solo i “civili” a volersi lasciare il degrado di viale Isonzo alle spalle. Anche alcuni rom vorrebbero andarsene per offrire un futuro diverso ai propri figli. Eva è una giovane di trentaquattro anni, madre di cinque figli, che ha un desiderio enorme di lavorare: ci fa vedere la sua casa, in netto contrasto con l’aspetto desolante dell’esterno. L’appartamento nel quale ci accoglie è lindo, curato, addirittura sfarzoso nell’arredamento: “Mi piace pulire – ci dice- Non mi limito alla mia casa, cerco di mettere ordine anche qui intorno, ma il più delle volte sono sola a farlo. Se potessi porterei i miei figli lontano da qui: io stessa li accompagno a scuola e al doposcuola pomeridiano, per evitare che frequentino il quartiere. Mio marito è sempre fuori, ed io vorrei poter lavorare, magari in una ditta di pulizie. Sarebbe bello.
Anche chi fa volontariato subisce il pregiudizio di chi crede che tutto sia inutile, perché tanto la situazione non cambierà mai. Sergio ed Isa lo sanno bene, ma non si arrendono: per due anni hanno condiviso l’attività di doposcuola con “Libera”, poi c’è stato anche il Gruppo Emmaus con il laboratorio solidale dell’usato, ora sono rimasti nuovamente soli. Nei locali della parrocchia insegnano ad amare la natura ed il prossimo, a prepararsi alla messa domenicale, a vivere i momenti più significativi dell’anno come il Natale. Spesso, però, devono recarsi casa per casa per coinvolgere i ragazzi nelle varie iniziative: “La prima volta che siamo arrivati qui hanno colpito le nostre macchine con delle pietre, ma ora hanno imparato a rispettarci e ad apprezzarci – afferma Sergio – Noi continuiamo ad operare e ad investire sulla cultura, perché riteniamo che sia importante. Potevamo scegliere di fare volontariato in maniera “più comoda” e gratificante, ma a noi va bene così. Non abbiamo paura. La paura blocca i pensieri e le attività”.
La parrocchia, l’unico presidio di etica e legalità
La chiesa di viale Isonzo è stata eretta circa trent’anni fa. E’ ampia, moderna e attrezzata, in grado di contenere anche i fedeli dei rioni vicini, come Pistoia. Negli anni si sono avvicendati come parroci cinque sacerdoti, da don Salvino Cognetti a don Pino Silvestre, e da circa otto anni è guidata da don Giorgio Pilò. “Abbiamo avuto anni difficili, in cui non facevamo che sostituire piante e luci, quotidianamente rotte e divelte – ci racconta Giovanni Silipo, collaboratore di don Giorgio – Le persone avevano paura di venire anche a messa, perché si ritrovavano le auto danneggiate. Al momento gli episodi di violenza si verificano con minore frequenza, anche se qui l’opera di evangelizzazione è sicuramente più difficile che in altre parrocchie”. A testimoniarlo ci sono la sbarra di sicurezza che permette di chiudersi all’interno e le grate alle finestre: troppe volte, del resto, sono mancati dall’altare gli olii santi, le candele, persino il libro di letture. Ed altrettante volte a commettere i furti sono stati dei bambini, senza distinzione di sesso. “Quella che noi viviamo è una situazione di insicurezza perenne che non dipende solo dai rom –continua Silipo – Chi viene qui si adegua. E non abbiamo neanche contezza di quanti siano realmente gli abitanti del quartiere, ai quali si sono aggiunti di recente numerose famiglie straniere. Un migliaio? O forse di più? Quel che è certo è che vorremmo avere più tranquillità e non vivere di tensioni”.
I rom di viale Isonzo
Armando Veneziano è molto conosciuto nel quartiere e in città. Lavora da anni come autista di un’impresa che si occupa di diserbo e pulizia, ed è l’interlocutore privilegiato di chi si interfaccia con gli abitanti di etnia rom di viale Isonzo.
Ci chiamano rom per la nostra provenienza, ma in realtà siamo nati qui e siamo italiani a tutti gli effetti – chiarisce – I politici, i sindacati mi contattano perché do un’immagine positiva, ma in realtà nessuno presta attenzione ai bisogni dei rom. Ed il nostro bisogno primario è quello di poter lavorare”. E’ facile replicargli che, secondo l’opinione corrente, i rom siano avvezzi a vivere di espedienti e non di lavoro onesto, ma la risposta di Armando Veneziano è immediata: “Io lavoro da sempre, ed ho portato altri rom a lavorare con me. Ho sostenuto anche la cooperativa “Speranza”, in cui lavoravano diversi rom, che si occupava del ritiro degli ingombranti dalle strade. Ora purtroppo è ferma, ma speriamo che un giorno possa continuare ad operare. Con i “civili” ho sempre avuto un buon rapporto, ed anche i miei figli non hanno mai avuto problemi a scuola. Uno sta frequentando un istituto superiore con buoni risultati. Insomma, ho cercato sempre di dare il buon esempio, in famiglia e nel lavoro”.  Non avviene di frequente che dei rom superino il ciclo della scuola dell’obbligo – il più delle volte si fermano molto prima, con la convinzione che già imparare a leggere ed a scrivere sia un successo enorme – ma succede. Molti rom spacciano e rubano, ma c’è chi crede nell’importanza del lavoro. Si dice pure che siano abituati a vivere nella sporcizia, ma le loro case molto spesso profumano di pulito e le donne, con scopa in mano, provvedono a riassettare i cortili vicini.
I pregiudizi esistono, spesso sono giustificati, ma vanno a colpire anche quanti decidono di affrancarsi da questo stile di vita.
Il mio “tour” allucinante nel “budello” di viale Isonzo finisce qui. Di certo non aggiunge niente a quello che già si sa, non dà soluzioni e forse suscita solo inquietanti interrogativi. Il pensiero dominante tra chi vi abita è che il quartiere debba essere demolito, e che i vari nuclei familiari vengano trasferiti in zone diverse della città.
Ma non spetta a noi dirlo.
 

                                                                                            Benedetta Garofalo

                                                                                     Addetta stampa CSV Catanzaro

 

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