L’invito a partecipare alla prima catanzarese di “Come un pozzo vuoto”, che la cooperativa culturale “Atlantide”, presieduta da Roberta Giuditta, ha rivolto al terzo settore locale, è stato accolto con entusiasmo dai protagonisti, ai vari livelli, del sociale che hanno affollato la platea del Politeama di Catanzaro. E non solo perché con l’occasione si è avuto l’ “assaggio” di un primo apparente ritorno alla normalità, ma soprattutto perché la tematica attorno alla quale si reggeva l’impianto dello spettacolo, a metà tra jazz e teatro, sembrava destinato a chi ha a che fare con la sofferenza tutti i giorni.
In realtà non si è mai adeguatamente preparati a confrontarsi con la violenza – anche se attraverso dialoghi concitati e musiche riadattate alla drammaticità dei testi elaborati da Giacomo Carbone – e men che meno a quello che vede un padre rivestire i panni di orco nei confronti della figlia bambina. L’abominio che si è consumato tra le pareti di casa di una famiglia “normale”, con la colpevole disattenzione della moglie-madre, si è così materializzato attraverso il racconto dai particolari raccapriccianti di una donna che ricorda la fine dolorosa dell’infanzia che l’ha resa una persona arrabbiata, insicura ed incompleta, che fa causa in tribunale e si affida totalmente all’amore inaspettato di un uomo finalmente “diverso”, senza tuttavia riuscirci. I ricordi di bambina – che andava a prendere il gelato con l’adorato papà – si interrompono bruscamente a quella data, a quel giorno: da allora solo orrore e devastazione interiore, resi tangibili dall’interpretazione (a tratti così cruda da avvertirsi come un pugno nello stomaco) di una Sara Valerio in stato di grazia. Accanto a lei Giancarlo Fares, nelle vesti di un padre che nega fino alla fine, che rode di gelosia nel vedere la figlia con la minigonna, e che porta i fiori sulla tomba di lei, morta suicida perché incapace di amare e di essere amata senza poter rivivere la violenza nascosta. A far da colonna sonora del dramma i musicisti e i coristi di “Orchestrana”, diretti da Nicola Pisani, che in chiave “jazzistica” hanno spinto i loro strumenti – e le loro corde vocali – in un crescendo continuo fino all’atto finale, “fulcro” di un’opera che trova la sua conclusione in un suicidio annunciato, che nel libro della vita può anche avere esiti diversi.
Ma chi subisce una violenza – e chi la subisce, poi, da un proprio congiunto – è come se morisse sempre un po’. E l’idea di Francesco Panaro di farne un’opera con il coinvolgimento di tanti talenti diversi, ed il miscuglio di sonorità differenti che si aggiungono poco alla volta, fino a prendere una forza inarrestabile, ha retto e convinto. Perché della violenza è sempre bene che si parli, perché c’è, perché fa male, perché una riflessione a riguardo non è più rinviabile.
Ufficio stampa CSV Calabria Centro