Studio dello Iulm su 800 organizzazioni. Il 63% ha una pagina Facebook, il 32% ha aperto un canale su Youtube. Contano anche migliaia di fan, ma ogni post o video raccoglie in media meno di un “mi piace” o di una condivisione o di un commento.
MILANO – Sono presenti soprattutto su Facebook e Youtube, ma non riescono a utilizzare in pieno le potenzialità dei social network. Su un campione di 800 enti del terzo settore, il 63% ha una pagina Fb, il 32% ha aperto un canale su Youtube e il 24% ha un account su Twitter. E nonostante ci siano enti che possono vantare migliaia di “Mi piace” alla propria pagina o follower su Twitter, l’engagement (ossia la capacità di suscitare una reazione da parte degli utenti) è basso: quando va bene è di 0,6 interazioni (mi piace o condivisioni, ecc) per ogni post. Su YouTube, i video caricati raccolgono circa 0,2 commenti. È quanto emerge dallo studio curato dall’Università Iulm, promossa da Mediafriends (la onlus nata per iniziativa di Mediaset), dal titolo “Spot e post del terzo settore. Modelli e prospettive della comunicazione sociale”. I ricercatori hanno analizzato anche 800 spot di 356 enti, trasmessi in Tivù dal 1992 al 2007 attraverso il circuito Mediafriends. “Negli anni ’90 prevaleva negli spot il tema delle dipendenze e il rischio o la paura delle conseguenze tragiche di certe scelte – spiega Guido Di Fraia, direttore del master in Social Media Marketing dello Iulm, che ha presentato questa mattina a Milano la ricerca – . Nei primi anni 2000 invece si punta sull’altruismo, con spot sull’ambiente, oppure sulle adozioni a distanza. Dal 2007, con la crisi economica, c’è un ritorno all’individualismo e la partecipazione sociale e solidale è limitata all’invito a donare, spesso con un semplice sms”.
Gli spot e i post sui social network, studiati dallo Iulm, hanno in comune (negli ultimi anni) lo sforzo da parte degli enti di essere rassicuranti sulla buona destinazione dei fondi raccolti. In particolare sui social, la comunicazione è “costituita in prevalenza da resoconti sull’operato” e il volto noto del testimonial (che magari appare nello spot televisivo) passa in secondo piano rispetto al racconto fatto dal ricercatore, dall’esperto o dal volontario. Questo avviene soprattutto su YouTube: la maggior parte dei video “non si basano su un piano comunicativo ad hoc -si legge nella ricerca-, ma sono spesso costituiti da filmati di natura istituzionale” con lunghe interviste ai volontari, agli operatori o ad esperti. “Questa enfasi sulle attività svolte – sottolineano i ricercatori – diventa un indicatore delle scarse competenze possedute, soprattutto da parte delle organizzazioni più piccole, rispetto ad un uso strategico e corretto del canale”.
Le realtà del terzo settore utilizzano i social network soprattutto con l’intento di raccogliere fondi. In particolare su Facebook, dove sono sempre di più le organizzazioni che contemplano sulla propria pagina il bottone “fai una donazione”: “Tale fenomeno rafforzerà probabilmente la tendenza a incoraggiare negli utenti comportamenti sollecitati da stimoli emozionali immediati e da motivazioni ego-centrate, che è risultata dominante nella comunicazione sociale negli ultimi anni”. (dp)
fonte: Redattore Sociale