Da Nord a Sud sono tante le esperienze attive e dedicate alle persone con disabilità. Ed è così che ex proprietà della criminalità vengono restituite alla collettività diventando simboli di riscatto. Ne parla l’ultima inchiesta pubblicata sul Magazine di SuperAbile di luglio
ROMA – Fanno rivivere terreni incolti, fabbricati, a volte intere ville o appartamenti confiscati alle mafie e, attraverso il loro impegno, li riportano al servizio dell’intera comunità. Sono le tante organizzazioni del terzo settore a cui da oltre 20 anni a questa parte vengono affidati i beni immobili sottratti alla criminalità organizzata. Ed è così che sui territori trovano casa tanti progetti di agricoltura sociale e di reinserimento di persone svantaggiate, attività culturali, centri sportivi o di aggregazione, perfino di accoglienza dei migranti. Se ne parla nell’inchiesta “Semi di convivenza nelle terre del boss”, pubblicata sul numero di luglio del Magazine SuperAbile, che a partire da oggi racconteremo in quattro puntate.
Sono passati ormai 21 anni dall’entrata in vigore della legge 109 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati ed è possibile, ormai, raccogliere i suoi frutti in tutta Italia, da Nord a Sud. Secondo l’associazione antimafia Libera, al 2016 si contavano più di 500 realtà del terzo settore a cui è stata affidata la gestione di un bene confiscato, ma il numero è in aumento. “Le realtà a cui possono essere affidati i beni confiscati – spiega Tatiana Giannone di Libera – sono le onlus (associazioni senza scopo di lucro) e le cooperative sociali di tipo B che prevedono il reinserimento di persone svantaggiate. In alcuni casi ci sono anche delle associazioni temporanee di scopo che coinvolgono fondazioni o consorzi di cooperative, ma bisogna sempre rispettare quella che è la definizione italiana di associazione di volontariato e di cooperativa sociale di tipo B”.
Per le associazioni e le cooperative, la gestione di un bene è un’opportunità spesso unica per poter realizzare le proprie attività o avviare progetti specifici. Tuttavia, a oggi, nonostante i 21 anni della legge 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, l’iter che toglie questi beni dalle mani della criminalità per ridarli alla società è ancora complesso: il primo passo è il sequestro, poi c’è la confisca di primo grado, non ancora definitiva. In questo caso è l’amministratore giudiziario a occuparsene, nominato dal tribunale contestualmente al provvedimento di sequestro. Successivamente, a confisca definitiva, il bene passa all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie, l’ente nazionale che provvede all’amministrazione e alla destinazione dei beni. Infine, laddove è possibile, l’immobile viene destinato ai Comuni che possono optare per l’apertura di bandi per il terzo settore. “L’iter è complicato – dice Giannone – e ogni passaggio ha ostacoli e attori diversi. Poi ci sono i processi, molto lunghi. Tuttavia il tribunale delle misure di prevenzione, insieme agli amministratori giudiziari, può assegnare il bene in maniera temporanea già in fase di sequestro. Mantenere un bene attivo anche nella fase di sequestro e di confisca di primo grado facilita l’arrivo di un bene in confisca definitiva in condizioni ottimali”.
Nonostante l’aumento dei beni destinati, però, sono ancora molti quelli per cui non è stata ancora definita una destinazione finale e che quindi rimangono come patrimonio dello Stato, in gestione dell’Agenzia nazionale: il censimento ha indicato 16.696 immobili tra fabbricati e terreni in gestione a fine febbraio 2017, ma i numeri sono sottostimati (oltre a 7.800 beni finanziari, 2.078 beni mobili, 7.588 beni mobili registrati e 2.492 beni aziendali). La maggior parte degli immobili confiscati sono concentrati in sei regioni: nella prima, cioè in Sicilia, se ne trova oltre il 40 per cento del totale, mentre una quota che oscilla intorno al 12 per cento si trova sia in Campania sia in Calabria, con la Puglia poco distante al 10 per cento circa. Non solo Sud, però: Lazio e Lombardia seguono a ruota, rappresentando entrambe una quota intorno al 7 per cento del totale dei beni confiscati, con Roma e Milano a farla da padrone. E infatti non è per niente strano imbattersi, nelle due città più importanti del Paese, in qualche esperienza portata avanti proprio usufruendo di immobili confiscati alla criminalità organizzata. Le difficoltà, però, non finiscono una volta che il bene è stato affidato. Non mancano infatti episodi di ritorsione o intimidazione: “Sono campanelli di allarme per il tessuto sociale di riferimento – racconta Giannone -. Un problema che si riscontra soprattutto in contesti piccoli o con una forte presenza della criminalità organizzata”. Ma ci sono anche altre criticità: “Il soggetto gestore del bene non ha un diritto di proprietà reale sul bene, che quindi non può essere dato in garanzia, per esempio, per chiedere un mutuo”. Nonostante le difficoltà, comunque, la gestione dei beni confiscati nel nostro Paese sta pian piano migliorando: “Negli ultimi anni ci sono state tantissime destinazioni in più rispetto al passato – aggiunge Giannone -. Questo rafforza la nostra tesi: l’utilizzo sociale e la destinazione alle associazioni è la strada giusta”. Secondo quanto riporta la Relazione del direttore dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati per il biennio 2015/2016,presentata a inizio 2017,negli ultimi due anni si è assistito a un significativo incremento della destinazione dei beni. Nel 2016 sono stati destinati 1.098 beni confiscati in via definitiva e l’anno precedente 1.731 immobili, con un considerevole aumento rispetto al periodo precedente: infatti nel 2014 erano stati 627, 335 nel 2013 e 191 nel 2012. I dati relativi ai beni destinati, inoltre, mostrano come il 64 per cento di essi sia stato assegnato agli enti locali per finalità sociali, il 23 per cento per finalità istituzionali, l’11 per cento mantenuto al patrimonio dello Stato per usi governativi, di ordine pubblico e giustizia. Il 2 per cento, infine, è stato destinato all’autofinanziamento delle attività dell’Agenzia.
FONTE: Redattore Sociale