Coprogettazione: dal cofinanziamento alla corresponsabilità

Coprogettazione: dal cofinanziamento alla corresponsabilità

Dopo il via libera della sentenza della Corte costituzionale 131/2020 e la pubblicazione delle linee guida sull’attivazione di strumenti di amministrazione condivisa tra pubblica amministrazione e Terzo settore prevista dal Codice, rimane da capire come e quando farlo, e come farlo al meglio. A partire dagli aspetti economici 

di Gianfranco Marocchi

 

Articolo pubblicato su Welforum.it il 29 luglio 2021

È interessante ragionare su come si sono evoluti gli interessi di chi si occupa di amministrazione condivisa. Solo due anni fa, il tema su cui si concentravano gli incontri pubblici e le domande degli operatori era quello della legittimità: la legge consente di coprogrammare e di coprogettare? Questo filone di riflessione non è scomparso, ma, soprattutto nella seconda parte del 2020, dopo che la Sentenza 131/2020 della Corte costituzionale ha dissolto ogni dubbio in merito, è stato affiancato da un altro: se oggi è ormai chiaro che collaborare si può, si tratta di capire come e quando farlo, e come farlo al meglio. E dunque le buone prassi da seguire, gli errori da evitare, con un approccio misto di tipo giuridico (ad esempio, come redigere un avviso pubblico per instradare al meglio il procedimento) e relativo alle dinamiche dei tavoli (come porsi in un tavolo di lavoro e come governarlo).

Oggi questo secondo filone si sta evolvendo in un terzo, che prende le mosse dalle prime esperienze pratiche di coprogrammazione e di coprogettazione. La domanda all’esperto nasce ex post, è una richiesta di confronto di chi ha provato in prima persona a praticare l’amministrazione condivisa e oggi vuole riflettere a partire da “come è andata”. E quindi i soggetti di questa conoscenza sono insieme degli “esperti” che studiano questi temi e i protagonisti che hanno vissuto in prima persona le esperienze; i primi senza i secondi rischiano di produrre una conoscenza vuota e poco appetibile.

Le narrazioni, proprio perché influenzate dalle esperienze soggettive, si fanno oggi molto differenti e non deve stupire di avere a che fare con entusiasti, secondo i quali grazie a queste esperienze si sono modificati radicalmente e in modo positivo i modelli di intervento di un territorio, così come con coloro che evidenziano problematicità.

Queste ultime possono essere ricondotte a due situazioni. La prima riguarda i casi in cui i protagonisti affermano che in fondo non c’è stato nulla di diverso da un appalto, evidenziando quindi situazioni riconducibili ad una immaturità del soggetto pubblico e/o del Terzo settore nell’assumere i nuovi ruoli derivanti da uno schema collaborativo; ma si tratta probabilmente di un caso meno interessante, un residuo destinato ad essere superato anche grazie alla diffusione delle Linee guida approvate con dm 72 del 31 marzo 2021. La seconda merita più attenzione e riguarda i casi di amministrazione condivisa autentica, cui i partecipanti riconoscono il valore, riscontrando al tempo stesso però elementi di problematicità che rendono difficile l’effettiva applicazione. In un precedente articolo si era affrontato il tema delle fatiche della collaborazione legate all’onerosità del lavoro nei tavoli; ora si intende affrontare un’ulteriore questione che sempre più spesso viene posta, soprattutto dal Terzo settore, legata alla (non) sostenibilità economica della coprogettazione per effetto della richiesta del cosiddetto “cofinanziamento” da parte delle amministrazioni.

La convinzione che si vuole qui esprimere è che “cofinanziamento” sia un concetto poco utile – anzi dannoso – da abbandonare e da sostituire con quello più inclusivo, credibile e produttivo di “corresponsabilità”.

In premessa va evidenziato come il fondamento di un procedimento ex art. 55 non sia (come in altri procedimenti collaborativi, ed esempio nei “patti di sussidiarietà” della Regione Liguria) la quantità di risorse proprie messe inizialmente a disposizione da parte del Terzo settore (il “cofinanziamento”), ma la natura “di interesse generale” degli enti del Terzo settore; che di conseguenza (e qui entra in gioco la corresponsabilità), orienteranno le proprie risorse non al proprio profitto ma al perseguimento dell’interesse comune. Le risorse anche non pubbliche non sono presupposto ma esito del processo, in altre parole.

Il concetto di corresponsabilità rappresenta un cambiamento radicale rispetto alle relazioni che si instaurano tra enti pubblici e Terzo settore quando essi si considerano come controinteressati in una relazione di mercato, dove cioè il Terzo settore vende prestazioni e il soggetto pubblico le acquista entro un sistema di competizione; in tale situazione il soggetto pubblico è solo nel definire gli interventi da attivare ed è solo nella responsabilità di trovare le risorse necessarie; in un contesto di amministrazione condivisa gli interventi da attivare sono invece frutto del concorso di tutti i soggetti, pubblici e di Terzo settore, con finalità di interesse generale e sono tutti questi soggetti a ricercare le risorse necessarie per realizzarli.

Questo è un processo virtuoso, forse incerto nei risultati (ricercare risorse non vuol dire necessariamente trovarle), ma che in esperienze documentate ha dato luogo ad una moltiplicazione impensabile degli interventi attivati a favore dei cittadini; ma richiede che, accanto alle risorse necessarie per garantire gli interventi che rispondono a diritti soggettivi che comunque le istituzioni pubbliche devono assicurare, tutti i partner si mettano in gioco avendo come obiettivo il costruire insieme le condizioni per realizzare il progetto condiviso.

Ciascuno lo farà secondo la propria vocazione, nell’ambito di un insieme di azioni concordate. L’organizzazione di volontariato solleciterà l’impegno gratuito dei propri membri e soprattutto attiverà campagne di coinvolgimento della cittadinanza a partire dalle finalità del progetto condiviso. Chi ha a disposizione locali, strumenti, competenze (anche trasversali alle azioni del progetto, ad esempio nell’ambito della comunicazione o delle tecnologie) li condividerà con il gruppo di lavoro. La fondazione del territorio potrà destinare risorse. E così via.

Resta la questione delle imprese sociali, cui nella logica del cofinanziamento viene chiesto “cosa mi offri gratuitamente?”. Perché dovrebbero farlo? Con quali risorse, o meglio, sottraendo quali risorse ad una comunità vicina? Di fronte a questa richiesta impropria, l’impresa sociale è portata da una parte a “simulare” il cofinanziamento enumerando a tal fine voci formali, che di fatto portano un valore aggiunto assai limitato al progetto, dall’altra a guardare con sospetto l’amministrazione condivisa come soluzione in cui bisogna “pagare (o fingere di pagare) per poter lavorare”, formula che evoca paralleli ben poco lusinghieri.

La realtà è che all’impresa sociale va chiesto di corresponsabilizzarsi facendo, appunto, l’impresa e quindi trovando risorse per il progetto grazie alle proprie capacità di investimento; e quindi, concretamente, o attraverso un’attività di impresa (un bar, una mostra, l’organizzazione di eventi, ecc. in un parco pubblico o in un edificio recuperato) che contribuisce di per sé e in modo autosostenibile al risultato atteso del progetto e che, nei casi migliori, oltre a generare risorse per la propria sostenibilità, finanzia altri interventi, o mettendo la propria struttura a servizio di azioni di ricerca risorse ad esempio su bandi comunitari o di fondazioni, sempre intendendo questa attività come orientata a scopi definiti concordemente nell’ambito del progetto e non come autonomo sviluppo di impresa.

Quando si legge che in casi di coprogettazione le risorse disponibili si sono moltiplicate, non è certo perché si sia richiesto ai partner di Terzo settore di “cofinanziare”, ma perché il partenariato si è impegnato (corresponsabilizzato) nell’attivazione di volontari (il cui apporto in alcuni casi è stato contabilizzato attribuendovi un valore economico) e nella ricerca di risorse economiche frutto di progettazioni comuni. Due voci “ex post”, frutto del lavoro dei partner, più che risorse destinate già ex-ante al progetto. Le risorse ex-ante sono o fittizie (come nel caso dell’impresa sociale che computa quote di ore lavoro del proprio staff) o a somma zero (il volontario dell’associazione che opera nel progetto anziché altrove). Il vero successo è quando invece l’azione porta a risorse aggiuntive, prima non esistenti: il cittadino che inizia a fare il volontario perché conquistato dal progetto, la risorsa comunitaria intercettata e integrata nel progetto, ecc.

Certo che questo implica il rischio che invece le cose vadano male, che le risorse aggiuntive, pur avendo operato al meglio, non siano reperite e inoltre mal si concilia con impostazioni, spesso presenti e rassicuranti da un punto di vista amministrativo, in cui si richiede ai partner non pubblici una certa percentuale di risorse proprie per dimostrare il vantaggio del procedimento collaborativo (per un approfondimento sulla legittimità e la sensatezza del non richiedere il “cofinanziamento” in termini tradizionali si rimanda anche a questo articolo). L’ottica corretta è diversa, non certo un mero richiamo generico all’impegno, ma la richiesta a chi si candida come partner di indicare le azioni di ricerca risorse in cui può impegnarsi, sviluppando poi questi intenti nel tavolo di lavoro comune e dando così evidenza del valore aggiunto della coprogettazione.

In conclusione: in questi mesi le esperienze di amministrazione condivisa non sono più solo auspicate e progettate, ma anche praticate e stanno documentando importanti successi ma anche problematicità che vanno affrontate a viso aperto. Quello della sostenibilità per il Terzo settore è sicuramente un tema importante, che va affrontato non in ottica formale di “amministrazione difensiva” (le carte da predisporre per evitare possibili accuse), ma al fine di ottenere un vantaggio pubblico sostanziale, superando l’idea delle risorse come un gioco “a somma zero” e adottando schemi win-win, dove quindi l’impegno collettivo e sinergico porta un vantaggio ai cittadini, risultando sostenibile per i partner; e su questo le esperienze in atto già oggi hanno molto da insegnare.

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