Femminicidi, sei donne su dieci uccise dal partner. Il 15% aveva denunciato

Nel biennio 2017-18 si sono verificati 211 femminicidi. Le donne avevano in media 49 anni, e nel 78% dei casi erano di cittadinanza italiana. Sei volte su dieci sono state uccise dal proprio partner. Solo il 15% aveva denunciato. Sono i risultati della relazione che la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio presenterà oggi in Senato.

«La violenza contro le donne rappresenta un fenomeno profondamente radicato nel substrato culturale e sociale sia in Italia che nel resto del mondo». E’ con questa premessa che inizia la relazione che la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, presenterà oggi in Senato alla presenza della presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, dalle ministre Elena Bonetti (Pari opportunità e famiglia), Marta Cartabia (Giustizia) e Luciana Lamorgese (Interno).

Attraverso l’esame degli atti dei fascicoli processuali, il documento fotografa i femminicidi commessi nel 2017-2018, dando conto della dinamica degli eventi, i fattori di rischio, la distribuzione territoriale del fenomeno, oltre ad esaminare le caratteristiche sia degli autori che delle vittime, nonché lo svolgimento delle indagini ed i relativi procedimenti penali.

Riportiamo sinteticamente alcuni dei risultati emersi:

Non chiamatela emergenza

Il documento indica chiaramente che «la radice della violenza contro le donne risiede in stereotipi culturali che fissano schemi comportamentali e convinzioni profonde, frutto di un radicato retaggio storico e di un’organizzazione discriminatoria che stabilisce l’identità sociale di un uomo e di una donna e legittima le diseguaglianze che costituiscono il substrato della violenza di genere e della sua forma più estrema costituita dal femminicidio».
«È un errore concettuale considerare la violenza contro le donne come emergenza, poiché si tratta di una condizione strutturale, diffusa e radicata, che per essere contrastata richiede interventi continuativi da parte degli organismi istituzionali deputati a riconoscerla, prevenirla, contrastarla e punirla»

I numeri

  • Nel biennio 2017-18 si sono verificati 211 femminicidi: di cui 96 nel 2017 e 115 nel 2018.
  • Non emergono particolari differenze né a livello territoriale né rispetto alle caratteristiche di autore e vittima. Il fenomeno, come d’altronde il fenomeno della violenza psicologica, fisica e sessuale, assume connotazioni trasversali.
  • Le donne avevano in media 49 anni, gli uomini 50.
  • Il 78% delle vittime e il 78,1% degli autori ha la cittadinanza italiana, mentre il 21% delle vittime e il 18,8% degli autori ha una cittadinanza straniera. L’83,9% dei femminicidi viene commesso da un autore che ha la stessa nazionalità della vittima. Quando, invece, le due nazionalità sono diverse ( il 13% dei casi), sono di più i casi in cui un femminicidio è commesso da un italiano ai danni di una straniera (14 casi) piuttosto che il contrario.
  • Più della metà dei casi, le donne vittime di femminicidio (il 57,4%) sono state uccise dal proprio partner (inteso come il marito, il compagno, il fidanzato, l’amante), che nel 77,9% dei casi coabitava con la donna. Il 12,7% sono state uccise, invece, dall’ex partner.

A proposito di pentimento

Escludendo gli autori non identificati e quelli che si sono suicidati dopo aver compiuto il femminicidio, il 30,2% degli autori (42 su 139) è fuggito dopo aver commesso il crimine, in 3 casi hanno chiamato le forze dell’ordine subito dopo il femminicidio, pur essendo fuggiti. Il 44,6% (62 su 139), invece, si è fatto trovare sul luogo del femminicidio, e, tra questi, in 26 hanno chiamato da soli le forze dell’ordine. Nell’1,4% dei casi (2 su 139) l’autore si è presentato direttamente ai Carabinieri per costituirsi. Il 64% degli autori ha confessato.

Negli autori di femminicidio colpisce il quasi irrilevante numero di pentimenti a fronte di un reato così grave che spesso lascia orfani i propri stessi figli. La ragione di detto comportamento può trarsi dalle dichiarazioni rese dagli stessi imputati nel corso delle indagini e dei processi da cui emerge quasi sempre l’odio e il disprezzo nei confronti delle vittime ed una cultura radicata per cui ci sono precisi comportamenti che devono tenere le donne e quando non osservati con obbligo di correggerli con la violenza fino al limite estremo della morte.

Dal documento: “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia”

In un caso un padre, violento con la moglie, maltrattava anche la figlia con un pezzo di legno per farla studiare e lo faceva alla presenza del fratellino affinché imparasse a picchiare le donne.
Al riguardo, si ricorda che fino agli anni ’60 il nostro Codice penale prevedeva lo ius corrigendi dell’uomo nei confronti della moglie e dei figli, cioè il diritto di esercitare violenza quando non ubbiditi. Per questo gli imputati non cercano un beneficio immediato o materiale, ma la ricomposizione, attraverso l’uccisione della donna, di ciò che ritengono che questa abbia distrutto con il suo atteggiamento disubbidiente».

Violenza vissuta in totale solitudine

Il 63% delle donne non aveva riferito a nessuna persona o autorità le violenze pregresse subite dall’uomo. É questo un dato particolarmente critico della situazione, purtroppo del tutto in sintonia con le stime emerse da altre indagini sulla violenza nel suo complesso. «Denota – scrivono gli esperti- la grave difficoltà che le donne incontrano nel cercare aiuto e allo stesso tempo denuncia il forte ritardo delle istituzioni a investire sulla costruzione di contesti adeguati a favorire la ricerca di aiuto e di sostegno da parte delle donne. Solo il 35% aveva parlato della violenza con una persona vicina, il 9% si era rivolta ad un legale per chiedere consiglio.

Solo il 15% delle vittime aveva denunciato

Solo il 15% delle donne aveva sporto denuncia/querela per precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai propri danni. «Le denunce/querele, quindi, avvengono in pochi casi, ma spesso, quando avvengono, si susseguono». Infatti, il 58,6% delle donne che avevano sporto denuncia ne aveva sporta più d’una e, addirittura, il 34,5% 3 o più. Il numero medio di denunce/querele per femminicidio risulta pari a 2,3, e la mediana pari a 2. Inoltre, quando la donna sporge denuncia, spesso lo fa per più di un reato, con una media di 1,5 reati per denuncia. I reati maggiormente denunciati, considerando tutto l’insieme delle denunce, sono: maltrattamenti in famiglia (29%), minaccia, anche grave/con arma (27%), lesioni personali (16%), atti persecutori (11%) e violenza sessuale (7%).

Il mancato contributo della collettività

Dall’analisi statistica è emerso un elemento assai significativo: la più alta percentuale delle donne uccise non aveva riferito a nessuno le violenze subite dall’uomo. Questo costituisce la conferma della totale solitudine e dell’isolamento in cui si trovano le donne maltrattate e la loro convinzione che nulla e nessuno le possa sostenere nell’uscita dalla violenza.
«Invece il 35% delle vittime di femminicidio aveva confidato a qualcuno le condotte violente e sopraffattorie di colui che poi le avrebbe uccise. Questo dato dimostra, dunque, che in un terzo dei casi parenti, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro, medici, operatori dei servizi sociali, psicologi, sacerdoti, o professionisti conoscevano la situazione di violenza e lo stato di pericolo della vittima, ciononostante non risultano esservi state autonome denunce».

Perché non denunciano

Risulta che sono molte le ragioni che disincentivano le donne dal denunciare: tra queste, si legge nel documento, «la convinzione di poter gestire la situazione da sole, la paura di subire una più grave violenza, il timore di non essere credute, il sentimento di vergogna o imbarazzo, il senso di sfiducia nelle forze dell’ordine».

Infermità mentale?

La infermità mentale è una strategia difensiva dell’autore molto frequente. Nel 59% gli avvocati dell’omicida pongono in dubbio la capacità di intendere e di volere dell’autore. Le assoluzioni per vizio totale di mente hanno un’incidenza pari al 7,6% dei casi totali. Il 50% degli autori assolti per vizio totale di mente ha ucciso la propria madre.
« L’inquadramento del femminicidio come esito di una malattia psichiatrica – si legge nel documento -semplifica e ridimensiona fortemente l’ambito di accertamento dei fatti sotto due profili: da un lato incentrandoli sul profilo patologico dell’imputato; dall’altro attribuendo a saperi tecnici, esterni alla giurisdizione una responsabilità tanto rilevante da incidere fortemente sulla decisione.
In questo modo il femminicidio rischia di non venire collocato nella sua dimensione strutturale di un contesto socio-culturale discriminatorio, in cui la donna è disprezzata e violata nella sua dignità, ma viene relegato a conseguenza imprevedibile di una malattia, in quanto tale deresponsabilizzante».

Le difficoltà della giustizia

Quanto alla formazione degli operatori del diritto, il documento riscontra alcune criticità riguardanti in particolare:

  • la non adeguata conoscenza delle peculiarità delle dinamiche della violenza basata sul genere e degli specifici strumenti giuridici utilizzabili per contrastarla e proteggere le vittime;
  • una non sempre idonea valutazione delle situazioni di rischio per la salute e l’incolumità delle donne che denunciano e dei loro figli;
  • la sottovalutazione delle violenze psicologiche ed economiche subite e denunciate;
  • il mancato inquadramento del femminicidio come apice di pregresse, gravi e reiterate violenze (anche psicologiche);
  • la diffusa tendenza ad assimilare la violenza domestica al conflitto familiare, con conseguente “oscuramento” del fenomeno e compromissione della possibilità che sia fatta emergere, con l’ulteriore grave effetto di confermare nell’autore violento il senso di impunità e di determinare nei confronti della donna che subisce la violenza effetti di vittimizzazione secondaria.
    (Del non riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i minorenni aveva parlato anche una ricerca di D.i.Re – Donne in Rete Contro la Violenza).

Il documento Relazione su “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018” è disponibile qui.
Alla stesura della Relazione hanno partecipato.
Paola Di Nicola, magistrata e coordinatrice del Gruppo; Maria Monteleone e Fabio Roia, magistrati; Fabrizia Castagna, Antonella Faieta, Teresa Manente e Maria (Milli) Virgilio, avvocate; Linda Laura Sabbadini, Direttrice centrale dell’ISTAT; Marina Musci e Matteo Bohm, statistici.

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