Quando, in angoli e zone più o meno conosciuti del nostro territorio, si vedono persone dedite alla prostituzione, scattano reazioni contrastanti. Nella maggior parte dei casi, queste persone danno fastidio, non le si vorrebbe vedere lì dove sono, per varie motivazioni anche legittime e condivisibili. Ma sarebbe riduttivo, troppo semplice e purtroppo anche poco efficace, limitarsi a dire: “Chiediamo un’ordinanza e facciamole sparire da lì”.
Trattandosi di donne immigrate, perlopiù di colore, potremmo pensare ad una situazione di comodo, ad un’attività da loro scelta e dalla quale possono liberamente uscire. In realtà non è così semplice.
Si tratta di una delle tante manifestazioni della tratta di esseri umani, che interessa donne, uomini, ed anche ragazzi e ragazze minorenni. Essa purtroppo, sul nostro territorio nazionale e regionale, si declina in molte forme diverse, oltre a quella della prostituzione: sfruttamento lavorativo, accattonaggio, traffico di organi, matrimoni forzati ecc. Tra queste forme, tuttavia, quella che desta più scalpore è la prostituzione, perché è sotto gli occhi di tutti, perché ci disturba sulle nostre strade, ma non perché è oggettivamente la più grave.
Non si tratta di ragazze che, per evitare la ricerca di un lavoro, scelgono la strada più breve. Questo, purtroppo, è vero forse per ragazze italiane che, a volte anche nelle nostre scuole, si prostituiscono per una ricarica telefonica. Qui si tratta invece di vere e proprie schiave, condotte a questa attività umiliante, mediante compravendita di persone da parte di organizzazioni criminali internazionali. La quasi totalità delle vittime del traffico di esseri umani, specialmente quelle che notiamo sul nostro territorio cittadino, sono nigeriane. Su di loro pende un debito che si aggira tra i 30.000 e 50.000 euro, che le ragazze, devono saldare alle “maman” (le tenutarie delle case in cui vengono praticamente recluse), per poter stare tranquille.
La tranquillità è una condizione che le vittime non vivono più, dal momento della partenza dal loro paese e che non potranno più raggiungere per timore di ritorsioni. Il debito, infatti, è sempre accompagnato da un giuramento fatto fare alle vittime, mediante riti magici e con la minaccia di morte qualora non venga saldato. Inoltre, sono costantemente pressati psicologicamente anche i familiari che restano nel loro paese. Così il timore indurrà la vittima a permanere nella situazione di sfruttamento e sottomissione.
Dunque, quelle che vediamo sulle nostre strade e che infastidiscono le nostre passeggiate o turbano i nostri quartieri sono delle vittime. Se lo capissimo e se forse imparassimo a spiegarlo anche ai nostri bambini, che magari sono incuriositi o che potrebbero essere turbati dalla loro presenza, probabilmente il problema sarebbe affrontato diversamente.
Si tratta dunque di vittime, di persone la cui dignità ed i cui diritti vengono continuamente calpestati, e non solo da chi le sfrutta, ma anche da chi evidentemente rende possibile questo sfruttamento, alimentando la domanda sul mercato. Non possiamo ignorare il problema o far finta che non esista anche nella nostra città.
C’è chi si muove da tempo per affrontare ed arginare il problema. La Fondazione Città Solidale, per esempio, è operativa da anni sul territorio catanzarese e crotonese come ente attuatore del progetto In.C.I.P.I.T., di cui è titolare la Regione Calabria, per monitorare e far emergere le vittime e per cercare di offrire loro percorsi di liberazione da questa schiavitù.
I servizi sono molteplici e sono offerti direttamente in strada, mediante le unità di contatto che escono sul territorio ed incontrano le ragazze. L’unità di contatto, costituita da un operatore di strada, da una mediatrice culturale e da una psicologa, gradualmente avvicina le vittime e, quando esse comprendono che vi è una via d’uscita possibile, cerca di metterle in sicurezza dando l’assistenza necessaria per una via di fuga. Vi sono poi strutture protette, nelle quali sono accolte le ex vittime, che intraprendono un percorso di recupero del loro equilibrio psicofisico per un graduale inserimento sociale. Le accoglienze vengono fatte in forma residenziale ed i programmi sono personalizzati, proprio perché ogni vittima ha avuto percorsi diversi, purtroppo tutti e sempre violenti. A fianco di questi due servizi, unità di contatto e strutture di accoglienza, vi sono altre azioni del progetto che aiutano l’emersione in diverse forme, quali le consulenze degli operatori della tratta, fatte in ambiti protetti ed anche su richiesta di istituzioni pubbliche.
Chi realizza tali servizi deve tener conto del fatto che la priorità è la sicurezza della vittima e dunque devono essere attivate procedure ad hoc che non siano letali o mettano a rischio l’incolumità di chi opera e di chi è vittima. Le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani sono dislocate capillarmente sul territorio nazionale ed hanno chiara conoscenza dei programmi e delle leggi in favore della vittime della tratta. Pertanto le strategie adottate dagli operatori, devono variare ed adattarsi nel tempo.
Si tratta dunque di un serio problema sociale, che non coinvolge solo le istituzioni a vario livello, ma che interessa ogni cittadino che dovrebbe avere coscienza di quanto avviene sul suo territorio e dovrebbe, per quanto possibile, informarsi e collaborare con chi ha competenze specifiche e mette a disposizione la sua professionalità per tutelare delle vittime, che rischiano di essere doppiamente discriminate e calpestate.