E’ giusto pensare a forme alternative al carcere, visto l’inarrestabile fiume di suicidi che si consumano all’interno delle celle? Se lo sono chiesto in tanti alla maratona oratoria promossa dall’Unione Italiana Camere Penali che ha avuto inizio da Catanzaro, in una piazza Matteotti gremita fino a sera di rappresentanti istituzionali e della società civile, accademica ed ecclesiastica (è intervenuto anche l’arcivescovo Claudio Maniago) chiamati a dire la propria su quella che ormai è una vera e propria emergenza.
36 suicidi dall’inizio dell’anno. Un suicidio ogni tre giorni e mezzo. Il carcere, ormai, non è più una questione relegata agli addetti ai lavori.
A questa domanda, in diretta sulla pagina facebook della Camera Penale “Alfredo Cantafora” di Catanzaro, hanno cercato di rispondere dapprima gli avvocati penalisti promotori dell’iniziativa, e coordinati dal presidente Francesco Iacopino, ma la scaletta degli interventi programmati ha subìto nel corso delle ore sempre nuovi stravolgimenti per il sopraggiungere di oratori di alto spessore. Lo stesso Garante regionale dei diritti dei detenuti, Luca Muglia, ha posto all’attenzione di tutti quello che è un vero e proprio problema sociale, perché è insostenibile che il carcere sia ormai considerato un “ricettacolo” di tossicodipendenti, immigrati e psicopatici che non interessa a nessuno.
Anche il sindaco di Catanzaro, Nicola Fiorita, si è interrogato su come conciliare il bisogno di sicurezza dei cittadini con il rispetto dei diritti dei detenuti: in realtà una soluzione non c’è, anche se basterebbe richiamarsi all’articolo 2 della Costituzione – come ha sapientemente ricordato il docente Antonio Viscomi, in rappresentanza, assieme ad Alberto Scerbo, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro – per trovare il fondamento del “riconoscimento” e della garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo.
Molti di questi diritti, in realtà, sono riconosciuti soltanto sulla carta, perché per un detenuto anche i tempi delle cure sanitarie si dilatano a dismisura, come ha esplicitato don Giorgio Pilò, da ventisei anni cappellano dell’istituto penitenziario di Catanzaro. Figuriamoci, allora, come sia facile in queste condizioni perdersi d’animo e non trovare più la motivazione ad andare avanti. Ogni giorno che passa, infatti, diventa un macigno per sé e per le famiglie: è quanto ha ricordato a tal proposito la mamma di Giuseppe, un giovane che ha posto fine alla sua vita a soli ventitré anni, non potendo reggere al senso di colpa per una condanna che non avrebbe mai accettato.
E’ urgente, quindi, che qualcuno si accorga dei loro bisogni, delle loro speranze, così come fanno i volontari che mettono da parte i pregiudizi per dedicarsi a loro, proponendo attività ed iniziative in cui lasciarli esprimere e trascorrere in maniera proficua i tempi infiniti del carcere.
“Noi tutti abbiamo il compito di non voltarci dall’altra parte ma di essere responsabili del recupero e del reinserimento detenuti nella società– è stato il monito lanciato da Luciana Loprete, presidente dell’Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti di Catanzaro, intervenuta per conto del CSV Calabria Centro – La condizione della reclusione incide non solo sui carcerati, ma anche sulle loro famiglie; madri, padri, figli, fratelli e sorelle che non possono essere abbandonati alla sofferenza ed isolati”. Anche Piero Romeo, presidente dell’associazione “Un raggio di sole”, ha voluto ricordare la sua esperienza di volontario nel carcere, ma c’è anche stato tempo e spazio per raccontare storie piene di positività, come quella della cooperativa “Mani in Libertà”, presieduta da Antonietta Mannarino, che rappresenta un esempio a livello nazionale di come detenuti di alta sicurezza diventino protagonisti del loro futuro. Con il sostegno di Fondazione Con il Sud, una vasta rete di partenariato – con l’associazione “Amici con il Cuore” come capofila, l’impresa sociale “Promidea”, l’associazione “Liberamente”, l’UIEPE e la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro diretta da Patrizia Delfino – ha portato avanti il progetto “Dolce Lavoro” per la formazione di detenuti nell’arte della pasticceria e l’apertura di un laboratorio all’interno del carcere. Da allora i detenuti pasticceri – anche attraverso l’attività di mediazione della Camera Penale nei confronti di alcuni imprenditori della città per la vendita dei prodotti nei supermercati – lavorano senza sosta nella realizzazione di torte, semifreddi e quant’altro esca fuori dalla propria fantasia e manualità, a riprova di un processo di riscatto sociale che restituisce la dignità attraverso il lavoro. Avere una spinta per il quale alzarsi ogni mattina e lasciare la propria cella, è ciò, infatti, che i detenuti più richiedono: ma ciò non sarebbe possibile senza l’affiancamento costante di persone disposte a dar loro “iniezioni di fiducia”.
Ufficio stampa CSV Calabria Centro