E se la Riforma del Terzo settore stesse già troppo stretta agli innovatori sociali?
Sembra quasi che l’aver codificato la terza gamba della società italiana oltre allo Stato e al mercato abbia messo in moto una più ampia rivoluzione verso un nuovo assetto che coinvolge non solo la “pancia del Paese”, ma anche le sue istituzioni
E se invece della pietra angolare fosse la pietra tombale? Più passa il tempo e più la riforma del Terzo settore sembra sancire il passato più che disegnare il futuro. Ma non tanto per eventi contingenti, anche se importanti, come il cambio di governo, le lungaggini della decretazione, i dubbi degli addetti ai lavori. Sembra quasi che l’aver codificato la terza gamba della società italiana oltre allo Stato e al mercato abbia messo in moto una più ampia rivoluzione verso un nuovo assetto che coinvolge non solo la “pancia del Paese”, ma anche le sue istituzioni. Quelle che, a vario titolo, rappresentano l’establishment, la parte rigida della società e che, al tempo stesso, immobilizzano il corpo sociale, ma danno anche continuità all’azione individuale e collettiva.
La riforma del Terzo settore sembra quindi, più che una soluzione settoriale, la chiave verso un nuovo paradigma perché contribuisce non semplicemente a riordinare, ma a mettere in movimento una parte di società finora rinchiusa in nicchie settoriali e in canne d’organo giuridiche, fra loro tendenzialmente impermeabili. E, vale la pena di ricordarlo, si tratta di una parte molto dinamica non solo in termini di capacità di mobilitazione, ma anche di performance hard come occupazione ed economia.
A uno spazio ristretto che inibiva il movimento si sostituisce un campo dove i modelli giuridici si moltiplicano e si adattano grazie alle qualifiche ombrello di Ets (Ente di Terzo Settore) e Is (Impresa Sociale), così come si allargano i settori di attività e gli assetti di governance fino alle forme di finanziamento. E si afferma la necessità per gli enti di formulare scelte coerenti. Un contesto più ampio che contribuisce ad accelerare la migrazione sia all’interno del settore, ma anche verso i confini con agli altri comparti istituzionali che, inevitabilmente, risultano più porosi.
A ricordarlo è un numero monografico della rivista Nonprofit dove si adotta, in maniera intelligente, una prospettiva di analisi della riforma del Terzo settore che corre lungo i confini, sia interni al settore stesso, ma soprattutto esterni ad esso: il primo (lo Stato), il secondo (il mercato) e, potremmo aggiungere, anche il quarto settore che, nel pieno di questo movimentismo, può essere declinato secondo due accezioni quasi opposte. Da una parte l’informalità che ha ricominciato a ribollire e che diventa contendibile non solo nelle organizzazioni della società civile ma anche nella Pubblica Amministrazione (attraverso strumenti come i patti di collaborazione) e nelle imprese for profit (che sempre più investono sulle community aziendali). Dall’altra, quasi all’opposto, l’imprenditorialità sociale di origine lucrativa che sempre più passa da mindset a modello di gestione e governance come dimostra l’affermazione delle società benefit e delle certificazioni bCorp in “concorrenza” con le imprese sociali non profit…