A un anno dalla legge che tutela le persone in difficoltà senza padri e madri mancano fondi e strutture. I genitori: “Speriamo che i figli non ci sopravvivano”
Servirebbero sei miliardi per garantire a due milioni di disabili di ottenere un alloggio in istituti idonei dopo la morte dei genitori secondo l’Anffas
La legge che doveva cambiare tutto, apparentemente non ha cambiato niente. Eppure nel maggio del 2016, quando la prima normativa organica sul dopo di noi fu licenziata dalla Camera, al governo era tutto un darsi di gomito: avete visto? Pensiamo ai più deboli. Bello. O piuttosto balle. Perché i più deboli non se ne sono accorti. «Siamo gli unici genitori del mondo a sperare che i figli non ci sopravvivono», dice Lucia Viggiano, mamma napoletana di una meravigliosa disabile grave, Francesca. E una dei circa trecentomila genitori italiani che spendono l’esistenza di fianco a figli che si limitano ad abitare corpi destinati a diventare un orpello. Adulti con la testa ricca e incompleta di bambini. Persone che vanno lavate, nutrite, accompagnate, seguite, curate e gestite ventiquattro ore al giorno. Esseri umani che, stando alla relazione presentata al Senato nell’aprile del 2016 dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, «vedranno in futuro aumentare il rischio di esclusione ed emarginazione, se la società non sarà in grado di fornire loro il supporto di cure e l’autonomia economica assicurata attualmente dalla rete familiare». La legge sul «dopo di noi», con i suoi trust, i suoi fondi vincolati, le sue agevolazioni fiscali per le assicurazioni fino a 750 euro, la sua «deistituzionalizzazione» (strutture monstre sostituite da case famiglia) e i suoi cohousing, avrebbe dovuto garantire quel supporto. Chiacchiere. L’obiettivo non è stato neppure sfiorato. Forse perché non si voleva, di sicuro perché non ci si è dotati degli strumenti per farlo. «Ma perché, davvero esiste una legge per noi?», dice delusa Lucia.
E’ sempre la relazione di Alleva a spiegare perché il «dopo di noi» non funziona. Ci sono due limiti e un buco nero. In assenza di una anagrafe sulle disabilità è impossibile dire quante siano le persone con problemi gravi in Italia (si stima circa due milioni) e non esiste una fotografia delle difficoltà che affrontano quotidianamente. Le necessità di un ragazzo autistico di 25 anni sono diverse da quelle di un down di 40. Mancano sia l’analisi quantitativa sia l’analisi qualitativa. Senza le quali non è chiaro quanto incidano i finanziamenti previsti: 90 milioni per il 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,18 milioni per il 2018, vale a dire meno di 400 euro l’anno a disabili che, accolti in strutture idonee costerebbero allo Stato 200 euro al giorno.
Soldi integrativi che integrano ben poco. E’ come se si decidesse di servire cinquanta pasti a una mensa dei poveri dove arrivano mille persone. A 950 rimangono affamate. Dove vanno a mangiare? E’ la stessa domanda che si fa l’Istat – e questo è il buco nero – su 40 mila disabili gravi che escono dai radar quando muoiono i genitori. Desaparecidos che, secondo l’associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva o relazionale, sono almeno cinque volte di più: oltre duecentomila. È accettabile che un Paese civile non faccia chiarezza? «Temiamo che i desaparecidos della disabilità finiscano in strutture non rilevate, centri per anziani o ex ospedali psichiatrici. La dispersione è enorme. Per altro le strutture sono concentrate al Nord, come se al Centro e al Sud vivessero tutti in famiglia», dice Roberto Speziale, presidente dell’Anffas. «Però la legge comincia a dare i suoi effetti e le Regioni stanno producendo i piani attuativi. Si vedono già i primi percorsi virtuosi di vite indipendenti e di qualità per le famiglie». Non a Napoli, dove Francesca ha fame e dice: mamma voglio la pizza.
La solitudine
Vomero, sala d’attesa dello studio odontoiatrico di Toni Nocchetti, una specie di santo laico che dedica la sua vita ad aiutare i disabili e ha fondato l’associazione «Tutti a Scuola Onlus». Sui divani ci sono i genitori di cinque ragazzi con gravi problemi cognitivi. E Lucia è una di loro. Francesca, che ha diciotto anni e la pelle bianchissima, le accarezza i capelli. Glieli pettina. Poi le mette un braccio intorno al collo. Lucia lascia fare, mentre Olga Caprio Innacolo racconta del suo Michele, che oggi ha 41 anni. Lei e il marito lo hanno adottato quando di anni ne aveva due. Lo sapevano come stava. Non gli è mai importato. «Sono stati anni pieni d’amore». Poi Michele è cresciuto, è diventato più aggressivo, più difficile, e Olga, una donna che sembra di carta velina e invece è di cemento, ha compiuto 75 anni. «Si dondola, non riesce a stare fermo. Al mattino lo portiamo all’Antoniano, una centro semiresidenziale dove lo trattano con attenzione. Alle due mio marito lo va a prendere e con qualunque tempo lo porta a vedere le partite di calcetto. Michele resta in macchina, accende la musica, guarda fuori ed è felice». E la legge sul dopo di noi? «Solo parole. Quando muoio il mio Michele non lo voglio rimanere a nisciuno». Anna Cattolico è la mamma di Gianluca, che di anni ne ha 36. Dice che lei una vita sua non l’ha avuta. Eppure è stata una vita bella. Faticosa, epperò degna. «Vorrei fare il premier per una settimana. Lo conosco il problema. Saprei come affrontarlo. Quello del dopo di noi non è un modo. Delle volte Gianluca lo devo inseguire con il bastone, perché alza le mani. Qualche tempo fa mi ha spaccato un sopracciglio. Però vivo per lui. Lo Stato non lo sa, ma io sì». Olga è nonna. E dice che Gianluca non si fa avvicinare da nessuna. Ma dalla sua nipotina di 4 anni sì. Lui chiude la porta. Lei la riapre. Gli va vicino e gli dice: vieni come ne. «Lui allunga la manona e la segue docile. Da qualche parte questi ragazzi hanno sempre un canale per comunicare». Solo che a forza di cercarlo ci si consuma. Il premio Nobel per la Medicina, Elizabeth Blackburn, segnala che i caregiver familiari – padri, madri, fratelli, zii, che si dedicano ai disabili gravi – hanno una aspettativa di vita più bassa della media di diciassette anni. Importa a qualcuno? A pochi, ma a qualcuno sì.
Laura Bignami, senatrice del gruppo misto, ha depositato in Senato una proposta di legge che di questi 17 anni tiene conto. Norme che in Polonia e in Grecia esistono già, ma da noi no. Il suo ragionamento è semplice. Chi vive meno per seguire i figli deve avere il diritto di andare in pensione cinque anni prima. «Noi chiediamo semplicemente di rendere più umana la dinamica sociale. Per capire quanto vale l’impegno di queste persone basterebbe portassero i loro figli tutti assieme al pronto soccorso e li lasciassero lì. Sarebbe subito chiaro il costo sociale di cui si fanno carico. La mia è solo una provocazione. Ma provate a pensarci. Certi problemi sono forse irrisolvibili. Ma tirare su la testa dalla melma si può». La sua proposta di legge è lì. Basta votarla. «Il dopo di noi è un piccolo seme, ma i trust, il co-housing e le polizze assicurative si potevano fare anche prima. Bastava avere i soldi. Esattamente come oggi». Nello studio di Toni, Francesca dice: «Mamma ho freddo, chiudiamo la finestra?» Intanto arriva la pizza.
Assicurazioni boom
Secondo l’Istat nei prossimi dieci anni i disabili gravi che rimarranno senza parenti saranno 160 mila. La loro aspettativa di vita cresce, mentre l’età media dei loro genitori si alza. Il problema non sono soltanto mamme sempre più adulte e dunque più esposte ai rischi legati a una gravidanza tardiva. Una ricerca pubblicata dal «Financial Times» segnala come i padri che concepiscono dopo i 40 anni (un esercito in crescita costante) mettono al mondo bambini che corrono un rischio tre volte superiore di sviluppare un disordine dello spettro autistico. Molti disturbi cognitivi che fino a 30 anni fa non erano diagnosticati oggi intervengono a disegnare il quadro sempre più complicato di una realtà che l’Italia continua a ignorare, non recependo la classificazione di disabilità grave riconosciuta dall’Icf, l’international classification functioning. La disabilità non è una malattia. Ma una condizione. Che va definita anche in relazione alle possibilità di interazione sociale considerata individualmente.
«Con questa indeterminatezza la politica ci va a nozze. Perché può permettersi di non ridiscutere lo Stato sociale. L’opacità non è casuale, è fatta apposta. Io contro questa legge mi sarei incatenato in Parlamento. Invece è passata, avendo come unico effetto quello di arricchire le assicurazioni», dice Nocchetti, che ha due figlie perfettamente sane e che si occupa di disabili solo perché glielo chiede il cuore. «Secondo lei esiste una stima dell’aspettativa di vita di un disabile che perde i genitori?». No. «Esatto. Io credo che resista molto poco». Francesca dice: non voglio la pizza. Poi la mangia. E allora dice: buona.
Soldi sprecati e fratelli
Sui divani dello studio al Vomero il dibattito tra i genitori continua. La legge sul dopo di noi è inutile per tutti. Lucia dice che i soldi non basta metterli. Bisogna anche capire come vengono spesi. E che quel controllo non lo fa nessuno. Sembra una riflessione piccola, invece è decisiva. Dice che gli assistenti sociali dei comuni spesso sono impreparati, che li pagano – poco – per un lavoro che non sanno fare. Che lei al suo ha rinunciato, perché era più un danno che un vantaggio. E anche Maria, che è la mamma di Biagio, un colosso di due metri, ha rinunciato al suo.
Lucia vuole anche andare via da Napoli, trasferirsi a Reggio Emilia, dove abita sua figlia Ludovica, perché al Nord i servizi sono migliori, ma lo sa che per Ludovica sarà un guaio. Anche i fratelli e le sorelle di disabili gravi hanno esistenze complicate.
Le attenzioni dei genitori vanno sempre a chi sta peggio. Angela, che ha due occhi da innamorarsi, mostra la foto di suo figlio Gianmarco, 21 anni, i lineamenti da attore e un disordine dello spettro autistico. Dice che la casa di famiglia l’ha intestata a lui. E che la sorella lo ha accettato dopo un po’. Ma che lei non può fare altro. «Lo so che ci sono istituti migliori e altri peggiori. Ma io non sopporto l’idea che Gianmarco finisca in uno di quei lager da 100 persone dove i ragazzi diventano dei numeri di cui non importa a nessuno».
Segue un dibattito su quanto sia giusto che i figli ricevano in eredità la disabilità dei fratelli. Ci sono posizioni molto diverse. Tommaso, che è il papà di Biagio, dice che ha letto di un genitore di Novara che ha sparato al figlio disabile e poi si è ucciso. «Io lo considero un gesto d’amore». Angela la pensa come lui. «Io lo so che Gianmarco finirò per portarlo via con me».
E la legge sul dopo di noi? «Quale legge?». Quella che secondo Speziale risponde alle angosce delle famiglie «ma che il governo non è stato capace di comunicare». Quella che i genitori qui al Vomero leggono e poi appoggiano delusi sul tavolo. «Gli unici che garantiscono diritti ai nostri figli siamo noi», dice Lucia. Francesca, che è elegantissima, come se nell’abbigliamento fosse possibile aggiungere scampoli di vita gregaria, urla: «Mamma, andiamo a casa?».
FONTE: La Stampa
AUTORE: ANDREA MALAGUTI