Riflessione di don Mimmo Battaglia, presidente del Centro Calabrese di Solidarietà, all’indomani dell’omicidio del giovane Gentile
Tanto si è detto e tanto si dirà, ma cosa ci insegna la vicenda di questi due ragazzi? Cosa ci lascia?
Se tutto, come temo, resterà come è, la morte di Marco sarà stata solo una notizia fugace che ha animato per qualche giorno le nostre chiacchiere da salotto o da social network. Con forse, il solo effetto, di incrementare le entrate di qualche servizio di videosorveglianza e aumentare la percezione diffusa di un mondo giovanile sempre più criminalizzato e marginale.
Al di là di ogni parola, quello che provo in merito a questa storia è rabbia e forse, in fondo, senso di colpa, frustrazione, vergogna.
Rabbia perché so bene che questa vicenda è la punta di un iceberg pronto ad emergere, che si potrebbe ripetere con altri volti ed altre vite.
Senso di colpa per il lavoro non fatto. Per tutti i ragazzi abbandonati nella loro crescita e tutte le famiglie lasciate sole.
Frustrazione perché pur conoscendo bene i rischi e le fragilità di questa terra so bene che provare ad affrontarle è un impresa immane e che di fronte ad una progettazione in tal senso le porte sono chiuse e le risorse praticamente assenti.
E poi vergogna. Da adulto, da prete, da educatore, mi interrogo su cosa stiamo sbagliando e guardo allo specchio il frutto della nostra resa educativa.
Ci crediamo ancora nell’educazione? Non ho risposte e non mi acquietano le analisi ed i pareri di esperti, sociologi e criminologi. Ho tante domande invece: se una regione ha un così alto tasso di abbandono scolastico, di delinquenza minorile, di gioco on line, un alto consumo di sostanze…mi interrogo sul serio quanto, al di là delle parole, venga investito a livello educativo, quanto impegno sociale ci sia con gli adolescenti e a fianco delle loro famiglie.
Mi chiedo ancora: ma quanto conosciamo i nostri figli? O piuttosto siamo completamente disconnessi da loro, senza sapere cosa pensano, cosa vivono, chi sono?
O forse la verità è che i nostri figli ci assomigliano più di quanto pensiamo. Diversi nella musica e nei vestititi ma uguali a noi nei valori e nelle norme, stessa cultura del vuoto, dell’immagine, del potere, del denaro, dell’individualismo. Sono il nostro frutto e non il nostro contrario. E allora forse Nicolas non è un mostro, è un “nostro”. Figlio delle nostre mancanze e del nostro smarrimento. Nostro: in questo plurale nessuno è escluso e il disagio giovanile è un invenzione letteraria per mascherare il disagio di un intero corpo sociale.
Un corpo sociale che ha quindi smarrito il senso della parola “agio”, confuso con la ricchezza materiale e di status e non identificato con il sistema dei veri bisogni dell’uomo: amore, amicizia, solidarietà, speranza.
Tanti, troppi dubbi. L’unica certezza che ho è che nessuno può essere lasciato solo, né le due famiglie vittime di questo dramma, né tutte le altre famiglie che in silenzio vivono la loro quotidiana fragilità, né tantomeno tutti i nostri ragazzi.
Per tutti noi che abbiamo responsabilità sociali è il momento di serrare le fila e cercare soluzioni complesse ad un problema dai molti volti. E insieme ripartire con quella fatica e umiltà che lasciano aperte ancore le porte alla speranza della ricostruzione di un nuovo umanesimo.
Don Mimmo Battaglia (Centro Calabrese di Solidarietà)