Nelle scorse ore il Senato ha ospitato la presentazione di un appello al presidente Mattarella da parte di diverse personalità e studiosi del volontariato, con l’obiettivo di accendere i riflettori sulla necessità di riconoscere e valorizzare maggiormente il ruolo del volontariato, portatore di modelli innovativi che ogni giorno costruiscono risposte a domande sociali crescenti e sempre diverse.
Chi conosce la realtà del Terzo settore, sa anche delle enormi difficoltà che sta incontrando soprattutto negli ultimi anni e non credo faccia fatica a leggere questa recente iniziativa come un nuovo, ulteriore segnale di malessere proveniente dal vasto e variegato mondo del Terzo settore.
Questo malessere è tanto più tangibile con il passare del tempo quanto comprensibile. Dunque, sempre più preoccupante, visto che racconta di migliaia di realtà non profit e di milioni di volontari che non sono messi nelle condizioni di seguire la loro vocazione di impegno sociale. Nei casi più gravi, queste realtà, spesso piccole e piccolissime, ma fortemente radicate nelle nostre comunità, non sono messe nemmeno nella condizione di continuare a esistere.
Alla base di questo disagio, o meglio ancora frustrazione, ci sono precise scelte e non-scelte della politica, che si sta mostrando, nei fatti, del tutto disattenta al valore di queste esperienze di impegno civico, di solidarietà, di buona innovazione sociale, delle quali beneficia tutto il tessuto economico e sociale del Paese. Se non fosse sufficiente constatare che il Terzo settore è quello che ogni giorno assiste i nostri anziani e i nostri parenti con disabilità, sottrae i nostri giovani dalla criminalità organizzata, porta cultura, musica e sport nelle periferie e molto altro ancora, si potrebbe ricordare il ruolo unico e insostituibile del Terzo settore nella fase più emergenziale della pandemia o quello che svolge ora nell’accoglienza dei profughi dall’Ucraina, come ha accolto e continua ad accogliere profughi da altri conflitti dimenticati.
È una non-scelta della politica, ma con ricadute pesantissime, quella di non concludere la riforma del Terzo settore iniziata nel 2016, presupposto imprescindibile per consentire ai vari soggetti di portare avanti il loro impegno con cognizione delle regole e delle proprie opportunità.
Sono scelte, e delle più paradossali, quelle che penalizzano fiscalmente proprio quel pezzo di società che reinveste nella comunità ciò che ricava, perché crede che la vera ricchezza non può che essere collettiva. Ne abbiamo un triste esempio nell’ultima legge di Bilancio, che ha previsto addirittura l’estensione del regime Iva alle piccole associazioni che in questo modo rischiano di scomparire, ma anche nell’immobilismo del legislatore sulle norme fiscali nella stessa riforma del Terzo settore. E in attesa che i ristori previsti dal Governo durante la prima fase della pandemia arrivino, per ultimi, anche alle associazioni, in Parlamento si discute se usare le risorse del 5 per mille per finanziare iniziative che nulla hanno a che fare con gli scopi del 5 per mille.
Ancora: è una scelta incomprensibile quella di non dar seguito, nel concreto, al coinvolgimento delle realtà sociali come scritto nero su bianco nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. I bandi su sport e inclusione sociale hanno paradossalmente escluso gli enti di promozione sportiva, che nascono appunto sul principio dell’inclusione, mentre quelli sulla valorizzazione dei beni sottratti alle mafie ignorano il contributo che avrebbe potuto e avrebbe dovuto dare il non profit.
Le dichiarazioni ufficiali a favore del Terzo settore non mancano, ma le azioni vanno da tutt’altra parte. E, discriminazione dopo l’altra, si tagliano le gambe a chi ha sempre, incondizionatamente, operato al fianco dei più fragili per una società giusta e inclusiva. Delle due l’una: o mancanza di consapevolezza o mancanza di volontà. In ogni caso, la dimensione del danno al Paese intero non fa che aumentare giorno dopo giorno. Invertire la tendenza si può, ma serve farlo ora e per davvero, senza più ipocrisie.
Fonte: Vita.it