“Il killer era autistico”. Può essere questa la spiegazione della strage di bambini in una scuola del Connecticut? Evidenziare che il giovane autore del massacro é un disturbato, serve a rassicurare i cosiddetti “normali” e rafforza il pregiudizio che lega la violenza inspiegabile ai disturbi mentali, alla follia? In fondo, il manicomio ci ha insegnato per cent’anni che i matti sono da legare perché socialmente pericolosi. Ma che fine hanno fatto i progressi e gli sforzi che hanno portato dalla psichiatria alla salute mentale e a poter curare disturbi gravi come la schizofrenia o la depressione?
Tutto questo dietro quattro parole. Un titolo frettoloso rimbalzato ovunque grazie alla comunicazione istantanea, dalleagenzie di stampa ai quotidiani online ai Tg. E ancora sui social network, sui blog, sui cellulari, al bar e in ufficio, con la potenza di fare arrivare un’informazione distorta a un numero elevatissimo di persone. In pochi minuti si possono compromettere anni di lavoro contro i pregiudizi e per l’inclusione sociale e creare grande sofferenza a persone già duramente provate. Le parole possono essere muri o ponti. Possono creare distanza o aiutare la comprensione dei problemi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate, confondere o addirittura offendere. Le persone disabili possono chiamarsi tra loro handicappati, tra i Rom si sente usare zingari, le Parlare civile assistenti familiari si identificano come badanti, i venditori ambulanti stranieri si dicono l’un l’altro vu’ cumprà ecc.
Quando si comunica occorre però precisione, bisogna avere consapevolezza del significato, del peso delle parole. Non é facile, perché il tempo é sempre poco, perché viviamo nella nostra cultura, perché il senso e la percezione delle parole si evolvono continuamente. Non é facile, ma é necessario per “parlare civile”. E anche per non usare un linguaggio “razzista e xenofobo”, che “prende di mira neri, africani, rom, romeni, richiedenti asilo e immigrati in generale”, con dichiarazioni che “in certi casi hanno provocato atti di violenza contro questi gruppi”, come é scritto riguardo l’Italia nel rapporto 2012 della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa. Questo libro mette insieme inchiesta giornalistica, sociale e linguistica, approfondendo i principali temi a rischio discriminazione e il linguaggio per parlarne. é il primo tentativo di questo genere in Italia, dove il dibattito sui termini più adeguati per rispettare la dignità delle persone é ancora arretrato rispetto al resto d’Europa. Prima di cominciare abbiamo consultato in modo informale le principali testate italiane e abbiamo scoperto che quasi nessuna ha delle linee guida sul linguaggio o su come trattare le notizie che coinvolgono le minoranze. Abbiamo quindi individuato otto aree a rischio discriminazione: Disabilità, Genere e orientamento sessuale, Immigrazione, Povertà ed emarginazione, Prostituzione e tratta, Religioni, Rom e Sinti, Salute mentale. Le tappe di questo viaggio attraverso una comunicazione più precisa e accurata, passano da 25 parole chiave, termini “ombrello” ai quali se ne legano in tutto quasi 350, fra parole e locuzioni. Ogni termine é introdotto da un caso giornalistico, poi commentato, o da alcune frasi fatte. I casi non contengono il nome Introduzione dell’autore o della testata, ma semplicemente la tipologia e la data di pubblicazione.
La spiegazione della parola comprende la definizione (anche etimologica), il suo uso, riferimenti ai dati statistici. Dove opportuno e possibile vengono suggerite delle alternative. Occorre precisare cosa questo libro non é e non vuole essere. Non é una nuova opera di denuncia della cattiva informazione; non é uno strumento di censura; non é un intralcio al lavoro giornalistico; non é un repertorio del politically correct (laddove si intende con questa espressione un modo di parlare eufemistico e lontano dalla realtà). Intende invece porsi come servizio per i cittadini, in particolare per gli operatori della comunicazione, fornendo le conoscenze di base aggiornate per trattare e valutare le informazioni su temi “sensibili”, al fine di garantire una loro trasmissione corretta sui mass media e ridurre il rischio di discriminazione. Lo sforzo é di riportare la complessità di opinioni diverse sul linguaggio per dare una direzione responsabile alla comunicazione pubblica, giornalistica e politica. é di chiarire i dubbi e contestualizzare l’uso di termini spesso abusati nelle cronache quotidiane per evitare che un linguaggio deformante diventi linguaggio normale, ma senza correre il rischio, d’altro canto, che le parole siano “proibite” per l’imposizione di una linea ideologica.
Stefano Trasatti