Riforma penitenziaria, Seac: "Disperdere gli sforzi significa fare un passo indietro"

A Roma il 51esimo convegno nazionale del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario. Laura Marignetti: “La certezza della pena non significa necessariamente pena immutabile”.
ROMA – Sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle misure di comunità, ricostruzione culturale della società e riconoscimento del ruolo del volontariato. Questi i temi toccati, a più riprese, questa mattina a Regina Coeli, durante la prima sessione di lavori del 51esimo convegno nazionale Seac (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario) sul tema “La riforma penitenziaria: lo stato della pena”, alla quale hanno partecipato 122 volontari provenienti da tutta Italia. La legge penitenziaria del nostro Paese risale a 43 anni fa, parla di un mondo, di una società e di un carcere che hanno subito profonde trasformazioni – scrive il Seac in una nota -. Il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario (n. 501, primo di una serie) con cui a dicembre il governo Gentiloni ha dato seguito alla delega ricevuta dalla legge 103/2017, ha portato una ventata di modernità nel quadro normativo aprendo alle pene alternative o di comunità, già largamente applicate nel mondo occidentale in luogo della detenzione in carcere e introducendo importanti disposizioni volte al miglioramento della vita penitenziaria e al rispetto della dignità umana”.
Non è chiaro però se l’attuale contingenza politica consentirà la definita approvazione quantomeno di questo primo fondamentale atto legislativo.
“Disperdere il frutto di questi sforzi condivisi significherebbe fare un anacronistico salto indietro oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee – dichiara Laura Marignetti, presidente Seac – si continua a pensare che la pena, una volta inflitta, non debba subire modifiche affinché non perda il carattere di certezza. È questo il pensiero che va fermamente contrastato sostenendo le ragioni di questa riforma. La certezza della pena non significa necessariamente pena immutabile”.
Per Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, è necessario pensare ad una ricostruzione culturale. La pensa così anche Marcello Bartolato, presidente Tribunale di sorveglianza Firenze: “La riforma deve essere culturale nella vita di un Paese che si definisce civile”. Secondo Carmelo Cantone, provveditore regionale Amministrazione penitenziaria Puglia e Basilicata, la riforma era necessaria, così come era necessario il percorso degli Stati Generali. “C’è però un vizio di fondo: è un discorso di amici che si parlano tra loro. La cosa fondamentale è che gli addetti ai lavori riescano a parlarsi tra loro trovando un linguaggio comune”.
Nessuno può essere escluso da un processo di recupero e ravvedimento. La conversione è possibile, il cambiamento può avvenire. La pensa così Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. “Il destino di questa riforma è incerto – ha affermato – la classe politica non deve essere ostaggio del consenso e non deve aver paura di approvare una riforma che non è uno svuota carceri, ma una riforma di civiltà”. Cinzia Calandrino, provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria Lazio Abruzzo e Molise si è soffermata sul ruolo del volontariato che è anche quello di far capire all’opinione pubblica che attuare le misure alternative non significa garantire meno sicurezza ai cittadini. Per Giovanni Maria Pavarini, presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia, la riforma contiene cose buone e cose meno buone, ma si può già partire da quello che c’è adesso. “A Regina Coeli non c’è il refettorio e dovrebbe esserci perché è obbligatorio dal 2000. Da ciò si evince che non è sempre vero che le riforme cambiano la realtà”.
Nel pomeriggio, poi, si è parlato delle prospettive dell’esecuzione penale esterna e delle misure di comunità. Domani mattina sarà, invece, presentato, all’Istituto Maria SS. Bambina, il progetto “Volontari per le misure di comunità”, finanziato dalla Fondazione CON IL SUD che comporta la definizione di un ruolo inedito del volontariato quale facilitatore dell’inclusione sociale e sensibilizzatore del tessuto sociale.
fonte Redattore Sociale

Stampa o condividi