La sanità regionale è commissariata dal 2010 per via di un debito pubblico da 187,5 milioni di euro. Risultato? Ad oggi sono stati smantellati 18 ospedali. E mentre la politica in attesa delle elezioni sembra paralizzata, la società civile è mobilitata da mesi. L’inchiesta
«Dal punto di vista umano e professionale è stata una bella sfida. Ricordo ancora la calorosa accoglienza di chi ci riconosceva per strada». Rossella Miccio, portavoce di Emergency, ha da poco concluso la sua esperienza al San Giovanni di Dio di Crotone, in Calabria, dove il team è arrivato su richiesta della Protezione Civile. Qui la squadra di Emergency ha collaborato con la direzione sanitaria per riaprire un’ala dismessa del nosocomio, poi trasformata in un reparto per curare il virus. «Non abbiamo voluto montare un ospedale da campo. Era inverno, faceva freddo e pioveva. Abbiamo recuperato un’area della struttura, rivisto i percorsi Covid e lavorato insieme al team medico e paramedico dell’ospedale. Medici e infermieri sono preparati, impegnati. Hanno fatto di tutto per rispondere alle necessità delle persone, ma tanti anni di disinvestimenti nella sanità pubblica lasciano dei vuoti». La pandemia si è abbattuta come un uragano sul sistema sanitario italiano che tra il 2010 e il 2019, in perfetta sintonia con le politiche di spending review, ha deciso di risparmiare su uno dei diritti fondamentali della persona: la salute. Secondo il report “7/2019” della fondazione Gimbe, nell’ultimo decennio ci sarebbe stato un definanziamento della spesa sanitaria di circa 37 miliardi di euro. Il dimezzamento dei fondi si è tradotto in una drastica riduzione dei posti letto per acuti, del personale medico e paramedico e nel blocco del turn over. E così mentre il resto dell’Europa ha una spesa sanitaria annua media di 2.572 euro, l’Italia si è trovata a investire solo 2.473 euro nella cura delle persone (dati report Health at a Glance Europe, 2020, OECD). «Io ne sono convinta, e questa esperienza ce lo insegna, che la sanità pubblica debba essere sostenuta. La politica, ad ogni livello, deve valorizzarla. Tutto ciò riguarda la nostra vita».
Il diritto alla salute, in alcune regioni, è meno garantito che mai. È questo il caso della Calabria, dove la sanità è commissariata dal 2010 per via di un debito pubblico pari a 187,5 mln di euro. Per ridurre quell’enorme disavanzo Giuseppe Scopelliti- all’epoca presidente della regione e commissario ad acta per la sanità- approva un piano di rientro che in nome del risparmio, oltre a ricalcare i tagli già previsti a livello nazionale, smantella ben diciotto ospedali collocati soprattutto nella popolosa provincia di Cosenza. «Undici anni fa abbiamo occupato la strada e siamo riusciti a ottenere ambulatori, un punto di primo intervento», spiega Mimmo del comitato Le Lampare. «Questo è un ospedale necessario per un territorio dissestato come il nostro» dichiara il giovane che dallo scorso novembre, insieme a centinaia di persone, è in presidio permanente per chiedere l’immediata riapertura dell’ex ospedale civile Vittorio Cosentino di Cariati, comune in provincia di Cosenza che si affaccia sul mar Ionio. «Se in inverno siamo ottantamila persone, in estate le presenze raddoppiano e i tempi di percorrenza si allungano».
Lungo i 105 km del litorale ionico cosentino, oltre all’ospedale di Cariati (ultimo paese prima di entrare nel distretto crotonese) è stato smantellato anche il nosocomio di Trebisacce, ai confini con la Basilicata. L’unico ospedale rimasto in piedi in quest’area che un tempo è stata la culla della Magna Grecia è quello di Rossano, con attivo un pronto soccorso che assorbe oltre duecentomila abitanti. Raggiungere Rossano però, vuol dire percorrere la trafficata statale 106 jonica che porta fino a Reggio Calabria e collega la costa alle aree montane. «Il pronto soccorso non è a portata di mano. Serve una rete ospedaliera equa. Non chiediamo un ospedale in ogni città, bensì in punti strategici», spiega il dottor Cataldo Formaro, radiologo in pensione tornato in corsia durante la pandemia e rappresentante del comitato In Presidio- Ospedale di Cariati. «Se su alcune patologie si interviene dopo un’ora, le possibilità di sopravvivenza scendono al 10 o 20%. Ciò fa capire come non sia garantita l’emergenza- urgenza». E continua: «Il parametro nazionale indica 3,2 posti letto ogni mille abitanti. Sulla fascia jonica ne abbiamo 0,94. Neanche senza Coronavirus sarebbero sufficienti».
L’occupazione dell’ex ospedale di Cariati va avanti ormai da mesi e si intreccia con le proteste, i blocchi stradali e i cortei che dallo scorso autunno infiammano le piazze calabresi. «Siamo finiti in zona rossa con poco più di cento casi perchè non abbiamo ospedali», dichiara Vittoria di Fem.In Cosentine in Lotta, collettivo femminista che da sempre denuncia i problemi del territorio calabrese. «Sulle ambulanze ferme davanti al pronto soccorso di Cosenza, ad aprile sono morte alcune persone. Siamo arrivate a Roma per incontrare Speranza ma non ci ha ricevute. Ci hanno proposto le stesse soluzioni del Decreto Calabria, ma da dicembre ad oggi nulla è cambiato. Cento assunzioni all’ASP di Cosenza sono una goccia nell’oceano», spiega l’attivista.
«Nonostante il commissariamento, qua abbiamo i Lea (livelli essenziali di assistenza) più bassi di tutta Italia. Da mesi non è garantita l’urgenza. Gli screening oncologici sono stati azzerati». La mancanza di strutture adeguate e di personale ha bloccato quei servizi sanitari già funzionanti a singhiozzo. Tra un commissario e l’altro, nessuno ha mai potenziato la medicina territoriale e l’assistenza domiciliare, caricando tutte le cure sui tre ospedali destinati alle cure complesse: Annunziata di Cosenza; Pugliese Ciaccio di Catanzaro e GOM di Reggio Calabria. Eppure i fondi ci sono per migliorare la rete ospedaliera. Dal 2017 sono state previste ben sei case della salute- tra cui figura anche Cariati- e da 13 anni è in cantiere la costruzione di altri tre grandi presidi ospedalieri, a cui sono rispettivamente destinati circa 150 mln di euro. Tutto però sembra procedere a rilento, mentre chi può si cura altrove e affronta i cosiddetti “viaggi della speranza”. «Il 60% dei malati oncologici si cura fuori dalla Calabria. Alla Lombardia, nel 2018 abbiamo versato oltre 300 milioni di euro. Siamo la regione con la mobilità passiva più alta d’Italia».
Alle spese passive, a far lievitare il debito che adesso si attesta sui 225 mln di euro (coperto solo in parte), si aggiungono anche le convenzioni con le cliniche private che hanno messo in ginocchio la sanità pubblica. «Il governo faccia qualcosa. Riprenda in mano la sanità perché non ci siano più regioni di serie a, b, c. Chiediamo la fine del commissariamento. Vogliamo una sanità pubblica e non convenzioni con cliniche private che nel corso degli anni hanno creato un sistema sanitario parallelo, in cui i politici locali hanno fatto campagna elettorale creando clientela. La Calabria merita rispetto», conclude Vittoria.
In Calabria la zona bianca ci potrà essere solo quando il diritto alla salute verrà rispettato, e quando le decisioni politiche metteranno da parte i propri interessi per curare quelli di circa due milioni di persone che da tempo chiedono riscatto dai pregiudizi e dalle gravi difficoltà che vivono quotidianamente.
Fonte: www.vita.it