L’intervento di Riccardo Guidi, ricercatore dell’università di Pisa alla conferenza 2017 di CSVnet. La frequenza dell’impegno sociale non è legata al titolo di studio, ma più a dove si abita e alle occasioni culturali che si hanno. “I CSV devono essere il pivot del volontariato di domani”
“La vera sfida è incidere sull’80 per cento di italiani ‘inattivi’, quelli che non hanno mai svolto alcuna attività di volontariato, né hanno mai fatto donazioni. Rendetevi conto che voi fate parte della minoranza!”. Riccardo Guidi ha concluso così il suo intervento davanti ai 300 partecipanti, tra volontari dirigenti e operatori dei Centri di servizio, alla Conferenza 2017 di CSVnet, in corso a Roma fino all’1 ottobre.
Chiamato a “prevedere” come sarà “Il volontariato di domani”, il docente dell’università di Pisa (autore di numerose ricerche sul tema) è partito con l’elencare alcune tendenze del fenomeno. Dal 2000 al 2015 “l’infrastruttura del volontariato ha sostanzialmente tenuto”: nonostante la crisi il loro numero complessivo è rimasto relativamente stabile, anche se “permane un’ombra sulla quota, che resta in calo, di chi è disposto a fare donazioni in denaro”. Non siamo dunque di fronte a pericoli da questo punto di vista.
Il reddito e il titolo di studio, inoltre, non sembrano influire troppo sulla frequenza dell’impegno nel volontariato: “non è insomma un’attività da ricchi”. Ci sono invece due fratture che possono determinare il maggiore o minore impegno sociale: “La prima è una frattura territoriale: a parità di condizioni, una persona del sud ha il 7-8 per cento di probabilità in meno di fare volontariato rispetto a una che abita al nord. E chi vive in un comune piccolo ha il 15 per cento di probabilità in più rispetto a chi sta in una grande città. Le città metropolitane disincentivano la partecipazione”. L’altra frattura riguarda l’opportunità di avere accesso a occasioni culturali: chi ne ha di più, ha anche fino al 35 per cento di maggiori probabilità di essere un volontario, ha spiegato Guidi, esortando i CSV e le associazioni a crearne il più possibile nell’ambito delle loro attività di animazione territoriale.
L’attuale “geografia dei modelli di volontariato, – ha detto il ricercatore, – si può descrivere in tre grandi ambiti: il primo è quello convenzionale, fatto in enti strutturati che presuppongono di solito una appartenenza durevole nel tempo: riusciranno domani queste organizzazioni a saper conciliare organizzazione e creatività? Sapranno collaborare tra loro e rispondere al cambiamento?”
Il secondo modello è quello individuale, che ha anche molti elementi del primo: è fatto di 3 milioni di volontari che “danno una mano”, che “senza di loro come si farebbe” (i tantissimi impegnati nell’assistenza), o che “scelgono di fare da soli”: sono volontari che rifiutano la mediazione delle associazioni, ha chiesto Guidi ai presenti, “ma sono davvero individualisti o non li avete finora saputi intercettare e valorizzare?”.
Il terzo modello è quelli non convenzionale: sono i volontari “sporadici”, occasionali, che si impegnano su eventi o azioni di breve durata, sono i più difficili da catalogare. Nei loro confronti, ha argomentato Guidi, “i CSV esprimono sul territorio molta più innovazione di quanto non emerga. Ma non sono state ancora sciolte alcune ambiguità come ad esempio decidere se questo è da considerare ‘vero’ volontariato; e qual è il ruolo delle associazioni. Insomma, i CSV quanto sapranno davvero relazionarsi con questo attivismo, che spesso non ha alcun colore, anzi è di tutti i colori?”
Alla luce di questo scenario, Guidi ha concluso il suo intervento con una metafora legata alla pallacanestro: “I CSV devono essere come il pivot, la figura attorno a cui ruota tutto il gioco di attacco: siate il pivot del volontariato, siate capaci di gestire gli intrecci tra quei diversi modelli, di rilanciare e di… segnare punti perché si possa sempre più incidere su quella maggioranza di cittadini che restano lontani dall’impegno sociale.”
FONTE: Vita.it
AUTORE: Redazione